sabato 26 giugno 2010

1920: Grosz & Heartfield, Oltre Dada

Il Borghese Heartfield diventa selvaggio
Questa è l'opera di George Grosz e John Heartfield presentata alla Dada Messe del 1920. Un manichino (1) di sartoria, prende le sembianze del “borghese” Heartfield che diventa selvaggio. E come diventa selvaggio? Il passaggio è semplice. È facile passare da borghese a selvaggio, soprattutto tutto se il selvaggio per eccellenza è quello della Repubblica di Weimar: il militare, il religioso, l'aristocratico. Ma perché scagliarsi contro queste classi? Siamo negli anni della fragile repubblica di Weimar, che non va oltre il 1933, anno dell'ascesa al potere di Adolf Hitler e del partito Nazionalsocialista. La Germania, reduce della sconfitta nel conflitto bellico, patisce le dure condizioni impostogli dal trattato di Versailles (2). Oltretutto, la repubblica era sottoposta a grandi pressioni da parte di estremisti di destra e di sinistra. La democrazia in Germania era abbastanza debole anche senza doversi addossare l'ostilità dell'apparato amministrativo:

I giudici sopravvissuti all'Impero furono reintegrati in servizio dopo la rivoluzione. […] Quasi tutti provenivano dalle classi privilegiate e, forti dei loro stretti rapporti con l'aristocrazia, gli alti gradi dell'esercito, gli ambienti politici conservatori, non si fecero trattenere dalla pietà nel procedere contro gli accusati comunisti e fecero mostra al contrario di squisita tolleranza per gli ex-ufficiali. (3)
L'esercito, la burocrazia e la magistratura del vecchio regime erano ancora presenti sotto la repubblica di Weimar. La casta militare, colpevole di avere condotto la Germania alla catastrofe, faceva ritorno al governo dopo che Ebert ebbe concluso l'accordo con il generale Groener, “accettando l'aiuto dei militari per il mantenimento dell'ordine” (4). Lo stesso dicasi del continuo impiego di funzionari imperiali. La rivoluzione fece ben poco per sovvertire tale tipo di politica. È inoltre importante ricordare l'esperienza di Grosz a riguardo. Cresce in stretto contatto con la classe militare e i suoi costumi:
En 1902, ils retournent à Stolp, où Marie Gross devient gérante du casino des officiers dans le régiment de hussards du prince Blücher. Ainsi Georg est en contact avec des militaires dès son enfance. (5)
Nel novembre del 1914 Grosz entra a fare parte dell'esercito ma dopo sei mesi lascia per motivi di salute. Nel 1916 sia Grosz (Georg Ehrenfried Groß) che Heartfield (Helmut Franz Josef Herzfeld) cambiano i loro nomi tedeschi in accezioni anglo-slave per protestare contro il nazionalismo tedesco. Tra il 1918 e il 1919 entrambi gli artisti, insieme a Herzfelde, si iscrivono al partito comunista tedesco. È dunque facile capire quale fosse la repulsione di questi artisti verso queste classi, colpevoli della catastrofica guerra. Contro la follia della guerra, un'altra follia; così i dadaisti contestano il sistema. Il Mannequin, tanto burlesco, vivace e grottesco, specchio deforme di noi stessi diventa un mascheramento, un abito folle nell'esuberanza di “un martedì grasso dello spirito”. La follia diventa, così, un atteggiamento etico nei confronti della realtà.
L'automa ostenta con vanto la medaglia di guerra, così come la forchetta e il coltello, critica alla vanità e ai valori borghesi della repubblica di Weimar, aristocratici paffuti che impiegano la giornata a mangiare o bere, l'iconografia del Caffè, luogo borghese e di sfruttamento. Lo stesso può dirsi dell'ambiguo oggetto presente nella zona pelvica.
È sicuramente un militare, un pluridecorato colonnello, mutilato, il cui unico braccio è diventato una rivoltella. Ha il tipico stivale del soldato prussiano. Al posto della testa ha una lampadina che si può accendere o spegnere, nella sua piccola testa non produce niente, ma elabora. Il manichino ha perso ogni connotazione individuale e anzi, presenta un numero come se fosse un oggetto prodotto in serie. La sua meccanicità è una critica alla modernità:
Puisque nous avons rompu avec l'ancien monde et que nous ne pouvons pas encore en construire un nouveau, alors apparaissent la satire, le grotesque, la caricature, le clow et la poupée; et c'est le sens profond de ces formes d'expression – à traves ce que la ‹marionnettisation› révèle de la mécanisation de la vie, di sa rigidité apparente et réelle - de nous faire deviner et sentir une autre vie. (6)
Ricordiamo che tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento si erano realizzati importanti progressi tecnologici che stavano cambiando il mondo e la società, tanto per ricordarne alcuni: l'elettricità, il telefono, la radio, l'automobile. Ma la tecnica aveva anche prodotto le condizioni per un’ immane guerra mondiale, il primo conflitto nella storia che vedeva l'impiego di nuovi mezzi potenti e micidiali (carrarmati, aerei, sottomarini, ecc...), in cui il sangue dei cadaveri sporcava il meraviglioso progresso scientifico-tecnologico. Si capì allora che bisognava accompagnare tale avanzamento tecnologico con quello umano. Dunque, non si critica tanto la tecnica o il progresso meccanico-tecnologico- industriale, ma l'impiego di esse da parte dell'uomo per annullare se stesso. Questo si può ben notare nella fotografia che ritrae Grosz e Heartfield alla Dada Messe in cui si intravede la loro scultura. Reggono un manifesto con il seguente postulato:

Die kunst ist tot
Es lebe die neue
Maschinenkunst
TATLINS (7)




1 E’ quasi inutile notare il richiamo ai golem metafisici di De Chirico: Lo sguardo degli artisti tedeschi sarà, per molti anni, rivolto altrove, in gran parte, come si vedrà, all'Italia, alla Metafisica e all'attività della rivista “Valori Plastici”. J. Nigro Covre, L’arte tedesca nel Novecento, Carocci, Roma, 1998; p. 103
2 Il trattato di Versailles impose pesanti gravami economici, politici e psicologici: riduzione dell'esercito tedesco, pagamento per le riparazioni e l'accettazione d' “unica colpevole dello scoppio della guerra”.
3 P. Gay, La cultura di Weimar (1968), trad. it., Dedalo, Bari 1978; p. 43.
4 Ivi, p. 41.
5 DADA, Centre Georges Pompidou, Parigi, 2005; p 444.
6 R. Hausmann, in DADA, Centre Georges Pompidou, Parigi, 2005; p. 819.
7 G. Lista (a cura di), Dada, l’arte della negazione, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1994; p.87.

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