venerdì 10 gennaio 2014

Southcorner studio - Antonio Cuono e Nella Tarantino - Agropoli (SA)

Prima di aprire il nostro studio professionale, in quel periodo di tempo che va dalla laurea ad una più consapevole comprensione della realtà, in quel periodo in cui la ricostruzione dopo il terremoto in Campania, assorbiva e calamitava energie d'ogni sorta, abbiamo svolto, insieme, il nostro apprendistato a Napoli, nello studio di Aldo Loris Rossi.

Una volta, vennero due giovani architetti e storici dell'architettura giapponesi. Erano a Napoli per svolgere una ricerca sulle possibilità di fare architettura nel mezzogiorno.
La tesi della loro ricerca può sintetizzarsi in questi termini: in un'epoca di rapida e progressiva unificazione di costumi e di modelli, di globalizzazione del pensiero, il ritardo storico del Sud diveniva paradossalmente il punto di forza di una eventuale diversità culturale e formale., il terreno ideale perché la ricerca dell'architettura e dell'urbanistica, libere da modelli imposti, potessero raggiungere dei risultati originali e dialetticamente antagonisti dell'attuale unidimensionalità storica. Nulla a che vedere, sia ben chiaro, con una sorta di "architettura meridionale" o "regionale" che dir si voglia.
Giovanni Klaus Koenig nell'introduzione a "L'architettura di Fehling e Gogel" scrive "Il seme dell'espressionismo organico se darà dei frutti lo farà nel sud più facilmente che a Milano, poiché l'espressionismo organico non potrà mai essere un movimento di massa…e, ancora,… non avendo voluto mai essere un movimento moderno non potrà mai essere postmoderno."

La figura di Aldo Loris Rossi era per noi quella di un maestro.

Avevamo capito, nonostante tutto, dove avremmo dovuto vivere.

La scelta - condizione del luogo era già di per sé una dichiarazione d'intenti.

Per dimensione e per posizione nodo nevralgico tra le aree metropolitane e la più vasta dimensione territoriale, si proponeva come luogo ideale per tentare la strada di una sperimentazione architettonica in funzione della realizzazione di quell'anello che è sempre mancato nell'urbanistica e nell'architettura: tra zone forti e zone deboli, tra linguaggio colto e linguaggio popolare, luogo di frontiera, dunque, in tutti i sensi, nel senso culturale e nel senso sociale.

Con grande sofferenza abbiamo assistito al rapido trasformarsi di quegli spazi di libertà possibili in spazi di consenso.

Nel tempo gli spazi operativi sono stati progressivamente saturati da una politica intesa come menzogna intellettuale, dalla professione intesa come prostituzione clientelare, dall'incultura televisiva che invadeva con i suoi talk show piazze e coscienze.

La nostra è la testimonianza di una deriva inarrestabile.

La politica non ha il coraggio dell'architettura.

Laddove agisce, nel migliore dei casi, non osa intervenire oltre il rischio di una sfida al consenso. Anni fa in Grecia, mentre mi emozionavo leggendo quei nomi misteriosi e lontani: Salonicco, Sofia, Belgrado, vidi in un istante come avrebbe dovuto essere il nuovo (antico) cuore del mondo.

Poi, una volta ad Atene, capii che la storia aveva oramai preso una piega diversa.

Restava l'impegno dell'architettura come testimonianza, come rivolta permanente.

L'architettura intesa come evocazione dell'infinita bellezza dei luoghi del Mediterraneo, come varco verso la modernità, secondo un dinamismo crescente delle due pulsioni opposte di un rinnovato sehnsucht contemporaneo e di un impegno quotidiano, costantemente teso alla costruzione.

Consapevoli che non eravamo soli in questo cammino.


"La poesia e il potere sono due ambizioni che si odiano di un odio istintivo." Dopo Baudelaire resta il fatto che i due nemici non possono più ignorarsi. Qualsiasi atteggiamento lucidamente consapevole non può oggi scegliere tra salvezza o caduta, l'oscillazione costante tra speranza e sconfitta appartiene ormai al codice genetico della nostra metodologia progettuale, esemplificata nella volontà di tradurre costantemente in azione un atteggiamento ostinatamente romantico tal quale lo definisce Baudelaire: "Il romanticismo non sta per l'appunto né nella scelta dei soggetti né nella verità esatta, ma nel modo di sentire.

I nostri artisti lo hanno cercato al di fuori, mentre solo dal di dentro era possibile scoprirlo.

Quanto a me, il romanticismo è l'espressione più recente e più attuale del bello.

Vi sono tante bellezze quanti sono i modi consueti di cercare la felicità."

Dal punto di vista della suggestione non v'è posto forse più "carico" di questa parte di Mediterraneo.

Il nostro Sud vive di un incalcolabile eroismo e di una irremunerabile bellezza.

Che sia la città del Sole di Campanella - città del Sole di Leonidov, o l'utopia di Nick Spatari, a Mammola, che siano le macerie d'artista di Gibellina o l'utopia realizzata di Aldo Loris Rossi, la "terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre", scoperta da Carlo Levi, o la "fanciulla siciliana" dipinta nell'Annunciata di Antonello, che siano gli "insensati, orribili bestioni" intravisti da Vico tra le selve di Vatolla, o i deliri di Gesualdo da Venosa.

Fare architettura per noi è stato credere a questi sogni.

Tentare di innestare su questa terra carica di mitologia, il senso di un nuovo tempo.

A partire dall'adesione al linguaggio dell'Espressionismo per puntare alla ricerca decostruttivista, senza mai rinunciare a quella che potremmo definire una "volontà sintetica".

Per noi l'architettura non può coincidere con una estetizzazione generalizzata che presupponga in sé l'automatica risoluzione delle contraddizioni rappresentate.

L'architettura non è solo atto estetico e dunque puro compiacimento, descrizione soddisfatta del moderno. E', o almeno dovrebbe essere, critica del moderno all'interno stesso della modernità.

E' per questo che si divarica una dualità che a noi risulta evidente, e che è esemplificata da due capolavori: il Museo Guggenheim di Frank O. Gehry a Bilbao e il Museo ebraico di Daniel Libeskind a Berlino.

A nostro parere indicano, seppur all'interno dello stesso straordinario vitalismo dell'architettura contemporanea, due percorsi diversi apparentemente vicini, in realtà lontani.

Gehry o Libeskind, che poi è lo stesso, dire Warhol o Pollock, la lucida accettazione della prostituzione dell'arte, la sua esibita adesione all'onnipresenza tecnologica o la critica dolorosa e sofferta dei mali della modernità.

In definitiva il Guggenheim di Gehry è approdo ad una felicità garantita senza sforzo, qualcuno, là in alto lavora per la nostra felicità. Pensate, c'è finanche giunta una colta proposta elettorale dove l'aspirante candidato politico di turno ci elencava prodigi e meraviglie del Museo Guggenheim, da lui per altro attentamente visitato, invitandoci a votarlo. Così finalmente avrebbe potuto impegnarsi per il nostro futuro benessere.

Daniel Libeskind non sopprime il dolore.

Attraversa i varchi vuoti della storia e non li riempie di nulla perché nulla li potrebbe riempire.

"Incontrollabile e soggetta a continue dolorose fratture è la storia dell'uomo".

In quell'elenco sterminato solo per caso non c'è ancora il nostro nome.

Ciascuno di noi è un sopravvissuto.

Ed è per questo che continuiamo la nostra lotta.

Cosenza, 1999


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