erché
mai, Pannychis, la gente dice sempre verità approssimative, come se la verità
non risiedesse soprattutto nei singoli dettagli? Forse perché gli uomini stessi
sono soltanto qualcosa di approssimativo. Maledetta imprecisione. In questo
caso probabilmente l’imprecisione si è aperta un varco solo perché Giocasta ha
dimenticato la morte di Laio, di cui peraltro non le importava niente, insomma
Giocasta ha trascurato di dirmi quella che per lei non era altro che una
quisquilia, la quale però mi avrebbe aperto gli occhi, e, impedendomi di far sì
che i sospetti di aver assassinato Laio si concentrassero su Edipo, mi avrebbe
indotto a chiederti di pronunciare il seguente responso: Apollo ordina di
costruire una fognatura. Ebbene, se così fosse stato, Edipo sarebbe tuttora il
re di Tebe e Giocasta la sua regina. Chi c’è invece al loro posto? Sulla Cadmea
regna ora il fido Creonte, che sta edificando il suo Stato totalitario. Quello
che volevo evitare è accaduto. Scendiamo da qui, Pannychis”.
La
vecchia guardò in direzione del portale principale che era rimasto aperto.
Attraverso i vapori rossastri vide rifulgere un rettangolo luminoso, superficie
violetta che si andava slargando sulla quale apparve un confuso groviglio che,
più netto man mano, giallo, diventò alla fine un gruppo di leonesse che
sbranavano un ammasso di carne. Poi le leonesse risputarono fuori ciò che
avevano ingoiato, un corpo umano si liberò dalle loro zampe, brandelli di
stoffa si ricomposero e crebbero insieme, le belve arretrarono, e nel vano del
portale si stagliò una donna vestita di bianco, una sacerdotessa.
“Non
avrei mai dovuto addomesticare leonesse” disse la donna.
“Sono
desolato,” fece Tiresia “la tua fine è stata veramente atroce.”
“Sì,
ma solo in apparenza,” fu la risposta conciliante della Sfinge “la rabbia è
tale che non si sente nulla. Ora che tutto è passato e tra non molto anche voi
due sarete soltanto ombre, la Pizia qui e Tiresia presso la fonte Tilfussa e
contemporaneamente in questa caverna, ora, dicevo, voglio che sappiate tutta la
verità. Che corrente, per Hermes!” e si strinse addosso il peplo trasparente.
“Tu ti sei sempre domandato, Tiresia,” seguitò poi “come mai io abbia tenuto
Tebe sotto la costante minaccia delle mie leonesse. Ebbene, sappi che mio padre
non era quello che dava a credere di essere e tu ritenevi che fosse per placare
i rimorsi della tua coscienza. Mio padre era un tiranno, perfido e
superstizioso. Sapeva benissimo che ogni tirannia diventa davvero
insopportabile solo nella misura in cui è solidamente fondata. Niente al mondo,
infatti, l’uomo sopporta con più difficoltà di una giustizia implacabile.
Proprio questa egli ritiene supremamente ingiusta. Tutti i tiranni che fondano
il loro dominio su grandi principi, l’uguaglianza dei cittadini tra loro o
l’idea che i beni di ognuno appartengano a tutti, suscitano in coloro sui quali
esercitano la loro potestà un sentimento di soggezione incomparabilmente più
mortificante di quelli che, anche se assai più ignobili, si accontentano come
Laio di fare i tiranni, troppo pigri per addurre una qualsiasi giustificazione
al proprio comportamento: essendo la loro dittatura lunatica e capricciosa, i
sudditi hanno la sensazione di poter godere di una certa libertà. Non si
sentono tiranneggiati da una arbitraria necessità che non consente loro
speranza alcuna, ma piuttosto da un arbitrio assolutamente casuale che ancora
permette qualche speranza”.
“Accidenti,”
disse Tiresia “sei davvero intelligente”.
“Ho
riflettuto sugli esseri umani e li ho interrogati prima di sottoporre ad essi
il mio enigma e farli sbranare dalle mie leonesse” rispose la Sfinge. “mi
interessava sapere come mai gli uomini si lascino opprimere: per amore del
quieto vivere, ho concluso, che spesso li induce addirittura a inventarsi le
teorie più assurde per sentirsi in
perfetta sintonia con i loro oppressori, come del resto gli oppressori
escogitano teorie non meno assurde pur di riuscire a illudersi di non opprimere
gli individui su cui esercitano il loro dominio. Solo a mio padre tutto ciò non
importava affatto. Mio padre era un despota, ma ancora uno di quelli orgogliosi
di esserlo. Non sentiva alcun bisogno di inventare giustificazioni al proprio
dispotismo. Ciò che lo tormentava era solo il suo destino: essere stato
castrato, e che la stirpe di Cadmo fosse condannata all’estinzione. Io sentivo
il suo dolore, i suoi pensieri malvagi, gli imperscrutabili piani che andava
rimuginando ogni volta che veniva a trovarmi e, per ore e ore, stava seduto
davanti a me senza togliermi gli occhi di dosso; fu allora che incominciai a
temerlo, e proprio perché temevo mio padre decisi di addomesticare le leonesse.
E ho fatto bene, avevo i miei buoni motivi. Dopo la morte della sacerdotessa
che mi aveva allevato, quando vivevo sola con le mie leonesse nel santuario di
Hermes sul monte Citerone- sì, Pannychis, a te voglio dirlo, e non m’importa se
anche Tiresia mi sta ascoltando- accadde che Laio mi fece visita col suo auriga
Polifonte.
“Uscirono
dal bosco, si sentì da qualche parte il nitrito di paura dei loro cavalli, le
leonesse sbuffarono, e io, che pure intuivo qualcosa di cattivo, mi sentii paralizzata.
Lasciai che entrassero nel santuario. Mio padre sprangò la porta e ordinò a
Polifonte di violentarmi. Io mi difesi. Mentre mio padre, per aiutare l’auriga,
mi teneva ben ferma con entrambe le braccia, Polifonte fece ciò che Laio gli
aveva ordinato. Le leonesse ruggivano intorno al santuario. Con le zampe
colpivano violentemente la porta. Ma la porta non cedette. Quando Polifonte mi
prese, io gridai forte; le leonesse tacquero di colpo. Quindi lasciarono che
Laio e Polifonte si allontanassero dal santuario.
“Nello
stesso periodo in cui Giocasta partorì un maschio al suo ufficiale della
guardia, anch’io misi al mondo un bambino: Edipo. Ignoravo del tutto lo stupido
oracolo che tu, Tiresia, avevi formulato. Lo so, volevi mettere in guardia mio
padre e impedire che Creonte prendesse il potere, il tuo unico intento era
quello di garantire la pace. Ma a prescindere dal fatto che Creonte ha poi
preso il potere e ha iniziato una guerra che si profila lunghissima, dal
momento che già i sette principi avanzano contro Tebe, tu soprattutto non hai
saputo giudicare Laio. Conosco le sue massime: si fingeva illuminato, Laio, ma
soprattutto è rimasto atterrito quando gli è stato detto che suo figlio lo
avrebbe ucciso. Laio ha pensato che l’oracolo si riferisse a mio figlio, e cioè
a suo nipote, né c’è da meravigliarsi che per precauzione abbia voluto
liberarsi altresì del figlio di Giocasta e dell’amante di lei, l’ufficiale
della guardia: i dittatori, si sa, devono sempre aver qualcosa da fare per
tenersi in esercizio.
“Fu
così che una sera un pastore di Laio si presentò da me con in braccio un
neonato i cui piedi erano stati trafitti e legati per le caviglie. L’uomo mi
consegnò una lettera che conteneva l’ordine di Laio di gettare in pasto alle
leonesse mio figlio, e cioè suo nipote, e con lui l’altro bimbo, il figlio di
Giocasta. Il pastore, cui versai molte volte da bere fino a ubriacarlo del
tutto, mi confessò poi che Giocasta lo aveva corrotto perché lui consegnasse il
piccolo a un suo amico, un pastore di Polibo, re di Corinto, badando però a non
rivelargli la sua origine. Mentre il pastore di Laio dormiva, io gettai in
pasto alle leonesse il bambino di Giocasta e trafissi i calcagni di mio figlio,
sicchè il mattino dopo, senza accorgersi dello scambio, il pastore si mise in
viaggio con in braccio il suo fantolino.
“Quasi
ancora non se n’era andato, ed ecco che arrivò mio padre con Polifonte; le
leonesse si stiracchiavano pigramente, in mezzo a loro giaceva la mano esangue
di un bimbo, candida e piccola come un
fiore. Mio padre domandò in tono pacato: “Che ne è dei bambini? Sono stati
sbranati tutti e due?. E io gli risposi: “Sì, tutti e due”.
“Ma
qui vedo solo una mano” disse lui rivoltandola con la lancia. Le leonesse
cominciarono a ringhiare. “Le leonesse hanno sbranato due bambini,” replicai
“ma di mani ne hanno avanzata una sola, a questo bisogna che ti rassegni”. Lui
domandò: “E il pastore dov’è?”. E io gli risposi: “L’ho mandato via.” “Dov’è
che l’hai mandato?”. “In un santuario,” dissi “quel pastore è stato solo un tuo
strumento, ma è pur sempre un essere umano. Avrà bene il diritto, dunque, di
espiare la colpa di essere stato un tuo mero strumento. E ora vattene.”
Mio
padre e Polifonte esitavano, ma con scatto feroce le leonesse li cacciarono entrambi
di lì e poi, con passo indolente, tornarono al loro posto.
“Mio
padre non osò più venire a trovarmi. Per ben diciotto anni io rimasi
tranquilla. Poi cominciai a tenere Tebe sotto la costante minaccia delle mie
leonesse. L’ostilità esplose clamorosamente tra noi senza che mio padre si
fosse mai arrischiato a nominare la causa di quel conflitto. Sospettoso e
diffidente quant’altri mai, e nel perpetuo terrore di ciò che l’oracolo gli
aveva predetto, Laio sapeva con certezza una cosa sola: che uno dei due bambini
era morto; l’altro forse viveva, ma lui non sapeva quale, temeva che suo nipote
si nascondesse da qualche parte e che io fossi in combutta con lui. Mio padre
ti ha mandato da me, Tiresia, perché tu sondassi le mie intenzioni”.
“Tuo padre non mi disse mai la verità, e neanche tu me la
dicesti” fu l’amara risposta di Tiresia.
“Se
io ti avessi detto la verità, tu non avresti fatto altro che metter in scena un
ennesimo oracolo” rispose la Sfinge ridendo.
“E
perché desti ordine a tuo padre di lasciare Tebe?” domandò Tiresia.
“Perché
sapevo che il suo terrore della morte era tale che di sicuro avrebbe deciso di
recarsi a Delfi. Non potevo certo immaginare che razza di brillantissimi
oracoli erano stati propalati da quel santuario per bocca di Pannychis; pensavo
che all’arrivo di Laio, previa consultazione dell’archvio per evitare
contraddizioni, sarebbe stato emesso l’antico responso, ciò che naturalmente
avrebbe atterrito mio padre ancora di più! Ebbene, quello che sarebbe accaduto
se Laio avesse interrogato Pannychis, quali altre fandonie lei gli avrebbe
propinato e a cosa lui avrebbe prestato fede, solo gli dèi possono saperlo.
Perché a questo non si è arivati, Laio e Polifonte hanno incontrato Edipo nel
valico stretto fra Delfi e Daulide, e al figlio non è bastato pugnalare suo
padre Polifonte, ha anche indotto i cavalli a trascinare nella polvere fino
alla morte suo nonno Laio”.
La
Sfinge tacque. I vapori si erano dissolti, vuoto era il tripode accanto alla
Pizia, Tiresia era di nuovo un’ombra possente, distinguibile appena dai grandi
pietroni rettagolari accatastati intorno al portale principale nel cui vano si
stagliava la Sfinge, ridotta ormai a una piccola silhouette.
“Poi
diventai l’amante di mio figlio. Sui giorni felici non c’è mai molto da dire,”
aggiunse la Sfinge dopo un lungo silenzio “la felicità detesta le parole. Prima
di conoscere Edipo odiavo gli uomini in generale. Erano bugiardi, gli uomini, e
appunto perché bugiardi non arrivavano a capire che il mio enigma (quale sia
l’unica creatura che ha un numero di piedi variabile- quattro al mattino, due a
mezzogiorno e tre alla sera- e che quanti più piedi muove tanto minore è la
forza e la velocità delle sue membra), non arrivavano a capire, dicevo, che il
mio enigma allude a loro stessi, e io allora feci sbranare dalle mie leonesse
gli innumerevoli uomini che non seppero risolvere questo enigma in alcun modo.
Gridavano
e chiedevano aiuto mentre le belve gli dilaniavano, e io non li aiutavo, ridevo
soltanto.
“Ma
quando, proveniente da Delfi, arrivò Edipo con il suo passo claudicante e mi
rispose che quella creatura è l’uomo, il quale da lattante avanza carponi con
quattro gambe, in gioventù cammina saldo su due gambe, e nella tarda età si
appoggia a un bastone, allora dal monte Ficio mi gettai a capofitto nella
vallata sottostante.Perché lo feci? Diventai l’amante di Edipo. Egli non mi
chiese mai nulla sulle mie origini. Naturalmente si rese conto che io ero una
sacerdotessa, ma da uomo devoto qual era credeva che fosse proibito andare a
letto con una sacerdotessa, e siccome tuttavia veniva a letto con me, fingeva
di ignorare chi io fossi, e quindi non chiedeva mai nulla riguardo alla mia
vita, e io non chiedevo nulla riguardo alla sua, addirittura per non metterlo
in imbarazzo non gli domandai nemmeno quale fosse il suo nome. Mi rendevo conto
che, se mai mi avesse detto il suo nome e menzionato le sue origini, il timore
di Hermes, al quale io era consacrata, lo avrebbe assalito, perché ora anche
Hermes avrebbe saputo il suo nome e lui, che era un uomo devoto, reputava che
gli dèi fossero tremendamente gelosi, e forse intuiva altresì che se mai avesse
indagato sulle mie origini, ciò che in effetti avrebbe dovuto fare per la
normale curiosità degli amanti, si sarebbe imbattuto nel fatto che io ero sua
madre. Ma lui temeva la verità, come del resto la temevo io. Per questo non
seppe che era mio figlio e io non seppi che ero sua madre. Felice per l’amore
di un uomo che non conoscevo e che non mi conosceva, mi ritirai nel santuario
sul monte Citeriore con le mie leonesse; Edipo venne da me molte volte, la
nostra felicità era pura, pura come un segreto perfetto.
“Ma
ad un certo punto le leonesse diventarono più inquiete, più irascibili, non
contro Edipo, ma contro di me. Mi sbuffavano addosso sempre più eccitate,
sempre più imprevedibili, e mi davano di continuo violente zampate. Io con la
frusta restituivo colpo su colpo. Allora le belve si accucciavano ringhiando, e
solo quando Edipo non venne più da me cominciarono ad aggredirmi, e io seppi
tutt’a un tratto che era accaduto qualcosa di inconcepibile… del resto lo avete
visto con i vostri occhi ciò che mi è successo e continua a succedermi nel
mondo degli Inferi. E quando, dalla crepa nella terra sopra la quale Pannychis
è assisa, le vostre voci sono scese fino a me, solo allora ho appreso la verità
e ho udito ciò che da molto tempo avrei dovuto sapere, anche se saperlo non
avrebbe cambiato nulla, e cioè che ho avuto per amante mio figlio e che tu,
Pannychis, hai annunciato la verità”.
La
Sfinge cominciò a ridere, così come la Pizia aveva riso prima in presenza di
Edipo, e anche la sua risata diventò sempre più incommensurabile, perfino
quando le leonesse le si avventarono di nuovo contro, lei continuò a ridere e
non smise neppure quando quelle presero a sbranarla dopo averle strappato di
dosso il bianco vestito. Poi non si riuscì più a distinguere ciò che le belve
gialle stavano ingoiando, ma la risata echeggiava ancora, anche quando, leccato
via tutto il sangue, le bestie sparirono. Di nuovo il vapore si innalzò dalla
crepa nella terra. Rosso papavero. La Pizia morente rimase sola con l’ombra
ormai quasi invisibile di Tiresia. “Una donna davvero notevole” disse
quell’ombra.
La
notte aveva ceduto il posto a un plumbeo mattino, che di colpo aveva fatto
irruzione nella caverna oracolare. Eppure, ciò che irresistibilmente stava
dilagando non era mattino non era notte, bensì qualcos’altro, qualcosa di
irreale, né luce né buio, senz’ombra, senza colore. Come sempre nelle prime ore
dell’alba, i vapori, depositandosi sul pavimento di pietra, creavano uno strato
di fredda umidità e, appiccicandosi alle pareti, formavano gocce nere che per
il peso colavano piano piano e sparivano nella fessura della terra sotto forma
di lunghi e sottili filamenti.
“Una
cosa soltanto non riesco a capire” disse la Pizia. “Che il mio oracolo si sia
avverato, anche se non come Edipo se lo immagina, è frutto di un’incredibile
coincidenza; ma se Edipo ha creduto all’oracolo fin dal principio e se la prima
persona che ha ucciso è stato l’auriga Polifonte e la prima donna che ha amato
è stata la Sfinge, se questo è vero, come mai non gli è venuto il sospetto che
suo padre fosse l’auriga e sua madre la Sfinge?”
“Perché
Edipo preferiva essere il figlio di un re piuttosto che il figlio di un auriga.
Il suo destino se lo è scelto da sé” fu la risposta di Tiresia.
“Noi
e il nostro oracolo,” sospirò amareggiata la Pizia “solo grazie alla Sfinge
siamo venuti a conoscenza della verità”.
“Non
saprei,” fece Tiresia pensieroso “la Sfinge è una sacerdotessa di Hermes, il
dio dei ladri e degli impostori”.
La
Pizia tacque: da quando i vapori non salivano più dalla fenditura nella terra,
lei tremava di freddo.
“Da
quando hanno iniziato i lavori del teatro” disse poi “i vapori qui dentro sono
molto diminuiti” e infine sostenne che la Sfinge, parlando del pastore di Tebe,
non aveva secondo lei detto la verità. “E’ probabile” disse “che non l’abbia
affatto mandato in un santuario, ma piuttosto gettato in pasto alle leonesse
come ha fatto con l’altro Edipo, il figlio di Giocasta; e che Edipo suo figlio
l’abbia invece consegnato di persona al pastore di Corinto. La Sfinge voleva
avere la certezza assoluta che il suo bambino rimanesse in vita”.
“Lascia
perdere, vecchia,” disse Tiresia ridendo “non preoccuparti di ciò che può
essere stato diverso da come ce l’hanno raccontato e che non smetterà di
cambiare faccia se noi continueremo a indagare. Smettila di scervellarti su
queste cose se non vuoi che sorgano altre ombre a impedirti di morire. Per quel
che ne sai tu, può anche darsi che esista un terzo Edipo. Non possiamo
escludere che il pastore di Corinto, anziché il figlio della Sfinge- ammesso
che si trattasse veramente del figlio della Sfinge-, abbia affidato alle cure
della regina Metope il suo stesso bambino, al quale pure aveva prima trafitto i
calcagni, e che quindi il vero Edipo- il quale comunque non era il vero Edipo-
sia stato abbandonato in balìa delle bestie feroci, come del resto non possiamo
escludere che Metope- magari anche lei amante di un ufficiale della guardia-
abbia gettato in mare il terzo Edipo per presentare come quarto Edipo
all’ignaro Polibo il figlio che aveva lei stessa segretamente partorito. La
verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta.
“Dimentica
le vecchie storie, Pannychis, non hanno alcuna importanza, in questa grande
babilonia siamo noi i veri protagonisti. Noi due ci siamo trovati di fronte
alla stessa mostruosa realtà, la quale è impenetrabile non meno dell’essere
umano che ne è l’artefice. Forse gli dèi, ammesso che esistano, potrebbero
godere dall’altp di una certa visione d’insieme, sia pure superficiale, di
questo nodo immane di accadimenti inverosimili che danno luogo, nelle loro
intricatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate, mentre noi mortali
che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo scompiglio brancoliamo
disperatamente nel buio. Con i nostri oracoli sia tu sia io abbiamo sperato di
portare la timida parvenza di un ordine, il tenue presagio di una qualche
legittimità nel truce, lussurioso e spesso sanguinoso flusso di eventi dai
quali siamo stati travolti proprio perché ci sforzavamo di arginarli, sia pure
soltanto un poco.
“Tu,
Pannychis, vaticinasti con fantasia, capriccio, arroganza, addirittura con
insolenza irriguardosa, insomma: con arguzia blasfema. Io invece commissionai i
miei oracoli con fredda premeditazione, con logica ineccepibile, insomma: con
razionalità. Ebbene, devo ammettere che il tuo oracolo ha fatto centro. Se
fossi un matematico potrei dirti con esattezza quanto fosse improbabile la
probabilità che il tuo oracolo cogliesse nel segno: era straordinariamente
improbabile, infinitamente improbabile. Eppure il tuo improbabilissimo responso
si è avverato, mentre sono finiti in niente i miei responsi più probabili e
dati ragionevolmente con l’intento di fare politica, e cambiare il mondo, e
renderlo più ragionevole. Oh, me stolto. Io con la mia ragionevolezza ho messo
in moto una catena di cause ed effetti che hanno dato luogo a un risultato
esattamente opposto a quello che avevo in mente di ottenere. E poi, stolta non
meno di me, sei arrivata tu, e con baldanza spregiudicata ci hai dato sotto con
i tuoi oracoli il più possibile nefandi. Da tempo ormai i motivi non contano
più, del resto i tuoi responsi li hai scagliati contro persone di cui non
t’importava niente; sicché un bel giorno ti sei trovata a pronunciare un
oracolo contro un ragazzo pallido e zoppo di nome Edipo. A che ti giova,
Pannychis, se tu hai colto nel segno e io invece mi sono sbagliato? Il danno
che noi due abbiamo fatto è mostruoso nella stessa misura. Getta via il tuo
tripode, Pizia, gettalo con te nella crepa della terra, anch’io sto per morire,
la fonte Tilfussa ha compiuto la sua opera. Addio, Pannychis; non credere però
che noi due ci perderemo. Come io che ho voluto sottomettere il mondo alla mia
ragione ho dovuto in quest’umida spelonca affrontare te che hai provato a
dominare il mondo con la tua fantasia, così per tutta l’eternità quelli che
reputano il mondo un sistema ordinato dovranno confrontarsi con coloro che lo
ritengono un mostruoso caos. Gli uni penseranno che il mondo è criticabile, gli
altri lo prenderanno così com’è. Gli uni riterranno che il mondo è plasmabile
come una pietra cui si può coin uno scalpello far assumere una forma
qualsivoglia, gli altri indurranno alla considerazione che, nella sua
impenetrabilità, il mondo si modifica soltanto come un mostro che prende facce
sempre nuove, e che esso può essere criticato non più di quanto il velo
impalpabile dell’umano intelletto possa influenzare le forze tettoniche
dell’istinto umano. Gli uni ingiurieranno gli altri chiamandoli pessimisti, e a
loro volta saranno da quelli irrisi come utopisti. Gli uni sosterranno che il
corso della storia obbedisce a leggi ben precise, gli altri diranno che queste leggi
esistono solamente nell’immaginazione degli uomini. Il conflitto fra noi due,
Pannychis, il conflitto fra il veggente e la Pizia, divamperà su tutti i
fronti: il nostro è ancora un conflitto emotivo non sufficientemente meditato,
eppure laggiù già costruiscono un teatro e già ad Atene un poeta sconosciuto
sta scrivendo una tragedia su Edipo. Ma Atene è provincia, e Sofocle sarà
dimenticato, Edipo invece continuerà a vivere, resterà un tema che pone a noi
enigmatici quesiti. A che cosa, per esempio, è dovuto il destino di Edipo? Alla
volontà degli dèi, al fatto che egli abbia trasgredito alcuni principi sui
quali si regge la società dei nostri tempi (benché da questo io avessi cercato
di proteggerlo mediante l’oracolo), oppure semplicemente Edipo è vittima di un
caso sfortunato che tu hai evocato con il tuo capriccioso vaticinio? “.
La
Pizia non rispose, tutt’a un tratto non c’era più, e anche Tiresia era
scomparso, e con lui il plumbeo mattino che gravava su Delfi, la quale pure si
era inabissata.