Caro Lettore,
La redazione di DaSeyn si prende una pausa. Torniamo! il 14 maggio.
Questo blog é solo un piccolissimo segno, la cui verità é l'esperienza di amicizia tra noi. Prendiamo dunque qualche settimana per radunarci.
Unde origo, inde salus
domenica 29 aprile 2012
giovedì 26 aprile 2012
Sebastiano del Piombo, Pietà
Un corpo di straordinaria bellezza giace sdraiato ai piedi di una giovane donna. Il corpo è come di marmo: un Apollo o un Ganimede dell'arte classica. Il candore del bianco risalta la preziosità degli incarnati, il chiaroscuro mette in luce con molta grazia le qualità del corpo. Ma è ormai un corpo privo di vita, almeno per un altro lasso di tempo. Nonostante la donna sia davanti a un morto, nel suo volto non si avverte un'espressione di disperazione, come quella del Laocoonte del Belvedere (di fronte alla morte...!) No! Nel suo viso riusciamo a scorgere la speranza, la fiducia in quel' "io saro con voi sempre, fino alla fine del mondo", perché in quel ultimo urlo al Padre, con quel suo ultimo gesto umano, egli acompagnò per sempre la nostra effimera umanità: Emisit Spiritum.La sua presenza rimane tra di noi, il suo spirito anima quelli che oggi si radunano in nome suo. E' la Resurrezione che si manifesta in quella luna piena dietro alla Madonna. Ecco, uno che è vissuto nel mondo ma non era del mondo, che la sua vita intera dedicò a un compito: La realizzazione dell'uomo. Ecco la vera passione del figlio dell'uomo.
In memoria di G.R.
Degas, deux filles Le Point - Dominique Bona ressuscite les soeurs Lerolle, muses de l'impressionnisme
Deux jeunes filles vêtues de blanc. L'une, appuyée sur un bronze de Rodin, semble songeuse. Elle s'appelle Yvonne Lerolle. Assise dans un fauteuil, sa soeur cadette, Christine, s'essaie à la gravité. Au premier plan, de profil, l'homme qui prend la photo avec une poire dissimulée dans sa main, c'est Edgar Degas, un familier de la famille Lerolle.
Nous sommes à la fin du XIXe siècle. En 1897, Renoir va, lui, peindre Yvonne et Christine Lerolle, au piano cette fois. Derrière elles, en un clin d'oeil ironique, il reproduit deux tableaux de Degas. Deux génies pour deux jeunes filles dont le nom n'évoque sans doute rien au public d'aujourd'hui, curieux, non ? En allant creuser derrière ces images, Dominique Bona a mis au jour un moment éblouissant des arts français. "Une Atlantide", dit-elle.
Le monde dans lequel grandissent les soeurs Lerolle est sans équivalent de nos jours. Grande bourgeoisie catholique libérale qui cultive les arts et l'amitié avec ferveur, hôtel particulier dans un 7e encore provincial. Le père, Henry Lerolle (1848-1929), est un rentier fortuné et un peintre à succès. Il joue aussi du violon et a épousé une musicienne accomplie. La vie est douce au 20, avenue Duquesne. On reçoit beaucoup, mais sans façon, la famille, bien sûr, et les amis. Ils ont nom Ernest Chausson (un beau-frère), Claude Debussy, Vincent d'Indy ou Albéniz. Il y a aussi des écrivains, Valéry, Claudel, qui vient parfois avec sa soeur Camille, Mallarmé, Pierre Louÿs, Henri de Régnier, Francis Jammes. Et des peintres, naturellement, Maurice Denis, Degas, Renoir, qui ne se lassent pas d'immortaliser cette famille délicieuse. Car les goûts d'Henry Lerolle, peintre officiel pourtant, le portent vers la modernité de l'époque.
Dans ce cocon, nos jeunes filles en fleur s'épanouissent, comblées et surprotégées. Elles ignorent tout de la vie "scandaleuse" de certains amis de papa. Les maîtresses sont cachées, les aléas de la bohème aussi. La grande affaire, ce sera bientôt le mariage. Évincé Debussy, captivé par Yvonne, sa Mélisande, avec qui il joue du piano. C'est alors qu'intervient Edgar Degas. Il est sarcastique, drôle, irrésistible. Henry Lerolle, qui collectionne ses oeuvres, y compris les nus (voir encadré), l'adore. De-gaz, comme il exigeait que l'on dît, se plaît dans cette famille. Il se plaît aussi, peut-être même plus, dans un autre clan, celui d'Henri Rouart, qui compte quatre garçons. Une mine ! Le démon de l'hyménée s'empare de Degas, ce célibataire endurci : il va se faire entremetteur, "marieur".
Mmes Rouart
"La famille Rouart est l'exact pendant des Lerolle", écrit Dominique Bona. Mais en plus riche et en plus tumultueux. Henri, le père, est un personnage flamboyant. Polytechnicien, industriel, inventeur, il est aussi peintre, très lié au groupe impressionniste. Quant à sa collection, elle est étourdissante : des chefs-d'oeuvre par centaines. Degas était son condisciple au lycée Louis-le-Grand et il le met au plus haut. Pourquoi s'opposerait-il à la fièvre matrimoniale d'Edgar ? Celui-ci va concocter trois mariages en deux ans pour ses fils. Eugène épouse Yvonne Lerolle en décembre 1898. En mai 1900, Ernest, un peintre qui fut l'unique élève de Degas, épouse Julie Manet, une grande amie des soeurs, la fille de Berthe Morisot (1). Louis épouse Christine Lerolle en février 1901.
Si le mariage de Julie et d'Ernest fut heureux, ceux des soeurs Lerolle tournèrent à la catastrophe. Fin des temps radieux, nos jeunes filles ont épousé deux "énergumènes" au "caractère barbelé". Tout les oppose, à commencer par l'affaire Dreyfus : côté Lerolle, on est dreyfusard, et côté Rouart, antidreyfusard, comme le sont Degas, Renoir, Forain, Maurice Denis, Debussy. Ce qui n'empêche pas Lerolle de continuer à les voir : chez lui, "l'art est plus fort que la politique".
Le malheur rôde. Eugène, l'ami de Gide, est homosexuel et Yvonne, exilée en Haute-Garonne, en souffre. Que sait-elle ? Son agronome de mari multiplie les investissements hasardeux, mais devient un notable local, un sénateur qui, à l'occasion, bat sa femme. Leur ruine sera totale et Yvonne se suicidera. Christine, elle, aura la chance de rester à Paris. Mais son Louis (le grand-père de l'écrivain Jean-Marie Rouart) est un polémiste au tempérament volcanique, un homme à femmes qui la trompe. Mésentente. Ils finiront par faire appartement - puis tombe - à part.
Ce monde disparu, Dominique Bona le fait revivre avec sa grâce habituelle. Elle a l'érudition légère et un sens de l'intime qui touche. On n'oubliera pas ses "muses de l'impressionnisme" à qui tout fut donné, puis enlevé.
martedì 17 aprile 2012
LA MORTE DELLA PIZIA (Parte Quarta) Friedrich Dürrenmatt
a mendicante era una fanciulla. Il mendicante fissò Pannychis con gli occhi sbarrati, ma non aveva gli occhi, al posto degli occhi c’erano due grandi buchi pieni di sangue nero raggrumato.
“Sono Edipo” disse il mendicante.
“Non ti conosco” rispose la Pizia, e strizzò gli occhi in direzione del sole che non voleva tramontare su quel mare turchino.
“Mi hai fatto una profezia” disse il cieco ansimando.
“Può darsi” replicò Pannychis XI “ne ho fatte a migliaia”.
“Il tuo oracolo si è compiuto. Ho ucciso mio padre Laio e ho sposato mia madre Giocasta”.
Pannychis XI guardava sbigottita ora il cieco ora la fanciulla coperta di stracci, pensando e ripensando che cosa tutto ciò potesse mai significare; ma la memoria non le venne in aiuto.
“Giocasta si è impiccata” disse Edipo sottovoce.
“Mi dispiace, condoglianze vivissime”.
“E io poi mi sono accecato con le mie stesse mani”.
“Ah, capisco” disse la Pizia; quindi, indicando la fanciulla: “E questa chi è?” domandò, non per curiosità, ma solo per dire qualcosa.
“E’ mia figlia Antigone” rispose l’uomo che si era accecato “o anche mia sorella” aggiunse con estremo imbarazzo, e poi si mise a raccontare una storia quanto mai confusa.
La Pizia, che aveva ora gli occhi spalancati, ascoltava distrattamente guardando attonita il mendicante dinanzi a lei, il quale si appoggiava alla figlia che era anche sua sorella, e dietro di lui c’erano le rupi, e i boschi, e più in giù il cantiere del teatro, e per finire il mare inesorabilmente turchino, e dietro tutto il cielo, il cielo di piombo, la superficie di quel nulla assoluto in cui gli uomini, per poter tirare avanti, proiettano ogni sorta di cose, divinità e destini di ogni genere, e quando il tutto cominciò a chiarirsi nella sua mente, quando riuscì a ricordare che pronunciando quell’oracolo lei aveva solo voluto fare uno scherzo mostruoso a quel giovane chiamato Edipo perché lui, una volta per tutte, si togliesse dalla testa la sua fede negli oracoli, allora tutt’a un tratto Pannychis XI scoppiò a ridere, e la sua risata diventò immensa, incommensurabile; dopo che il cieco se n’era andato zoppicando con la figlia Antigone già da un bel po’, lei stava ancora ridendo. Eppure, come di colpo era scoppiata a ridere, così di colpo la Pizia ammutolì quando le venne in mente che non tutto ciò che era accaduto poteva essere considerato frutto del caso.
“Sono Edipo” disse il mendicante.
“Non ti conosco” rispose la Pizia, e strizzò gli occhi in direzione del sole che non voleva tramontare su quel mare turchino.
“Mi hai fatto una profezia” disse il cieco ansimando.
“Può darsi” replicò Pannychis XI “ne ho fatte a migliaia”.
“Il tuo oracolo si è compiuto. Ho ucciso mio padre Laio e ho sposato mia madre Giocasta”.
Pannychis XI guardava sbigottita ora il cieco ora la fanciulla coperta di stracci, pensando e ripensando che cosa tutto ciò potesse mai significare; ma la memoria non le venne in aiuto.
“Giocasta si è impiccata” disse Edipo sottovoce.
“Mi dispiace, condoglianze vivissime”.
“E io poi mi sono accecato con le mie stesse mani”.
“Ah, capisco” disse la Pizia; quindi, indicando la fanciulla: “E questa chi è?” domandò, non per curiosità, ma solo per dire qualcosa.
“E’ mia figlia Antigone” rispose l’uomo che si era accecato “o anche mia sorella” aggiunse con estremo imbarazzo, e poi si mise a raccontare una storia quanto mai confusa.
La Pizia, che aveva ora gli occhi spalancati, ascoltava distrattamente guardando attonita il mendicante dinanzi a lei, il quale si appoggiava alla figlia che era anche sua sorella, e dietro di lui c’erano le rupi, e i boschi, e più in giù il cantiere del teatro, e per finire il mare inesorabilmente turchino, e dietro tutto il cielo, il cielo di piombo, la superficie di quel nulla assoluto in cui gli uomini, per poter tirare avanti, proiettano ogni sorta di cose, divinità e destini di ogni genere, e quando il tutto cominciò a chiarirsi nella sua mente, quando riuscì a ricordare che pronunciando quell’oracolo lei aveva solo voluto fare uno scherzo mostruoso a quel giovane chiamato Edipo perché lui, una volta per tutte, si togliesse dalla testa la sua fede negli oracoli, allora tutt’a un tratto Pannychis XI scoppiò a ridere, e la sua risata diventò immensa, incommensurabile; dopo che il cieco se n’era andato zoppicando con la figlia Antigone già da un bel po’, lei stava ancora ridendo. Eppure, come di colpo era scoppiata a ridere, così di colpo la Pizia ammutolì quando le venne in mente che non tutto ciò che era accaduto poteva essere considerato frutto del caso.
domenica 15 aprile 2012
Spunti Letterari: Lewis
Un Uomo nato cieco, ricevendo la vista dopo un intervento chirurgico, ricerca la luce. Nessuna spiegazione su cosa essa sia è capace di soddisfarlo. “In realtà, egli continuava a cercare, cercare con una bramosia che aveva già qualcosa della disperazione”.
Ogni parte della realtà è messa in chiaro da qualcosa che sta fuori da essa. Ma se fosse possibile guardare la verità delle cose oltre l’apparenza che costruiamo noi stessi sulla realtà– come si presentano i tulipani delle Terre Vaghe- si potrebbe far entrare in noi la vera bellezza del reale come una voce “al cui suono le mie ossa si sciolsero come acqua”.
Nella parola affabulante di uno scrittore si può ritrovare l’esperienza che si è fatta inconsapevolmente. Leggere è, in qualche caso, conoscersi oltre le proprie convinzioni, interrogarsi oltre le proprie ragioni, sorprendersi di qualcosa che diviene esplicito dentro di sé e salva dal disordine o, più caritatevolmente, dall’incoscienza in cui viviamo gran parte dei nostri giorni, sdraiati supinamente sul mondo così come ce lo fanno apparire.
I due brevi racconti dal titolo in corsivo sono di C.S. Lewis nella raccolta “Prima che faccia notte” edita, in Italia, da BUR nel 2006.
T.B.
Nella parola affabulante di uno scrittore si può ritrovare l’esperienza che si è fatta inconsapevolmente. Leggere è, in qualche caso, conoscersi oltre le proprie convinzioni, interrogarsi oltre le proprie ragioni, sorprendersi di qualcosa che diviene esplicito dentro di sé e salva dal disordine o, più caritatevolmente, dall’incoscienza in cui viviamo gran parte dei nostri giorni, sdraiati supinamente sul mondo così come ce lo fanno apparire.
I due brevi racconti dal titolo in corsivo sono di C.S. Lewis nella raccolta “Prima che faccia notte” edita, in Italia, da BUR nel 2006.
T.B.
venerdì 13 aprile 2012
mercoledì 11 aprile 2012
Collages by Chad Person
Artist Chad Person, creator of the post-apocalyptic shelter experiment the Resource Exhaustion Crisis Evacuation Safety Shelter that managed to ruffle the feathers of the ATF when he built an improvised shotgun sculpture, has shifted focus to ongoing series of collages made from United States currency. Some of the earliest pieces are part of hisTaxCut series, a tongue-in-cheek title stemming from his ability to write off the destroyed currency as part of his taxes. His most recent piece, the kraken shown above, will be on display as part of a group exhibition at Joshua Liner Gallery starting April 19.
via this is colossal
THE ARTISTS’ POSTCARD SHOW
Intimate and immediate, the artist’s postcard is a microcosm, a miniature work of art designed for a specific social purpose through which we can also trace the rich histories of modern and contemporary art.
The Artists’ Postcard Show is a selective survey of the postcard as a distinctive artistic medium from the mid-twentieth century to present day. All of the works have been produced with the idea, if not always the function, of the postcard in mind: that distinctive double-sided greeting designed for use without an envelope…
April 6 – June 17, 2012
Spike Island, Bristol
Spike Island, Bristol
La poésie d'Antonin Artaud suintait de son crayon
Florence Loeb (1929-2011) a plusieurs fois raconté sa première rencontre avecAntonin Artaud. C'était en 1946, dans la galerie de son père, Pierre Loeb, rentré de l'exil à Cuba auquel l'Occupation avait forcé sa famille. Artaud, tout récemment libéré de son internement à l'asile de Rodez, était un ami de Pierre Loeb, comme l'étaient Miro, Picasso ou Arp. Florence a alors 16 ans. "Je suis arrivée à la galerie où mon père, Pierre Loeb, recevait quelques amis. Il me demanda de leur servirun verre. Je me souviens de petits verres, sans doute à liqueur. Lorsque le tour d'Antonin Artaud arriva, celui-ci me regarda avec douceur et je remarquai le bleu ciel limpide de ses yeux." Début d'une amitié.
Elle l'invite à dîner, elle parcourt Paris en bus avec lui, elle lui rend visite à Ivry, il lui conseille de saines lectures - Baudelaire, Hölderlin, Poe, Nerval. Ensemble, ils visitent l'exposition Van Gogh à l'Orangerie qui précipite Artaud dans l'écriture du légendaire Van Gogh, suicidé de la société.
Il la dessine aussi, le 4 décembre 1946, longs cheveux, visage creusé d'ombres, inquiète, mais avec dans les yeux un peu de tendresse pour le portraitiste. C'est en effet la période, qui dure à peine deux ans, pendant laquelle Artaud exécute plusieurs dizaines de portraits au crayon qui, en compagnie de dessins datant de l'internement à Rodez, sont montrés en 1947 dans la galerie de Pierre Loeb. Le poète a écrit la préface de l'exposition : "Le visage humain est une force vide, un champ de mort."
Florence Loeb est morte l'an dernier et son portrait à la mine de plomb est au centre de la vente qui dispersera sa collection le 5 avril chez Sotheby's. Deux autres portraits d'Artaud y figurent, ceux de Pierre Loeb et de Sima Feder, l'une de ses amies, réalisés coup sur coup, le 6 et le 7 octobre 1946.
Et puis il y a les autoportraits, une feuille où on en dénombre cinq, peut-être six, marqués de points et de stries. L'un tient de la caricature. Sur un autre, il se donne le profil et la coiffure d'un guerrier sioux ou comanche. Si longtemps reste-t-on devant la feuille, on ne peut la quitter sans la conviction de n'en avoir pas tout vu. A gauche, qu'est-ce que cette forme, humaine, phallique, terminée par deux plumes - inexplicable ? Quant à l'autoportrait du 17 décembre 1946, c'est aujourd'hui l'une des oeuvres les plus connues du XXe siècle, souvent exposée, mille fois reproduite. La tête est immense et large, sur un cou très maigre. Le regard ne se laisse pas définir. Aucune comparaison n'est excessive devant une oeuvre si foudroyante : Rembrandt, Munch ou Van Gogh.
L'estimation avancée, entre 500 000 et 700 000 euros, paraît modeste pour un tel chef-d'oeuvre. Mais, classée trésor national par le Ministère de la culture le 30 mars, l'oeuvre ne peut plus quitter le territoire français. Pour les quatre autres dessins, les estimations oscillent entre 150 000 et 300 000 euros, prix là encore bien modestes en comparaison des sommes qui se dépensent dans certaines ventes d'art actuel à New York ou à Hongkong. Il est vrai que l'un des principaux collectionneurs d'Artaud, le réalisateur Claude Berri, a disparu. En reste un autre célèbre, homme de cinéma lui aussi, l'acteur Johnny Depp.
Aux cinq portraits, la vente joint les éditions de textes d'Artaud dédicacés par lui àFlorence Loeb et un large ensemble de sculptures et masques, lié à l'autre passion de son père, les arts que l'on a longtemps dits "primitifs". Il finança en 1929 l'expédition de Jacques Viot dans les mers du Sud - autre terme d'époque -, ce dont témoigne un "maro" - étoffe d'écorce battue et peinte - provenant de la région du lac Sentani, en Papouasie.
Pierre Loeb ayant aussi contribué à la connaissance de la statuaire africaine, sa fille reçut de lui plusieurs sculptures dogon et bamana (Mali) de grande qualité, ainsi qu'une tête fang (Gabon) de petites dimensions - 14 centimètres de haut -, mais d'une subtilité plastique telle que l'on ne serait pas surpris que l'estimation haute - 30 000 euros - ne soit pas vite dépassée au cours des enchères.
Sotheby's,
7, rue du Faubourg-Saint-Honoré, Paris 8e. Exposition au public : les 2, 3, et 4 avril de 10 heures à 18 heures. Vente le 5 avril, à 15 heures.
martedì 10 aprile 2012
domenica 1 aprile 2012
Berliner Kindheit um neunzehnhundert
Tiergarten
Non sapersi orientare in una città non significa molto.
Non sapersi orientare in una città non significa molto.
Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno.
Quest’arte l’ho appresa tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prima tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni. No, non le prime, poiché le precedette quell’altro che a esse è sopravvissuto.
La via verso questo labirinto, cui non è mancatra la sua Arianna, passava sul ponte Bendler, il cui dolce arco fu per me il primo pendio collinare. Non lontano da lì era la meta: Federico Guglielmo e la regina Luisa. Emergevano dalle aiuole su tondi piedestalli e parevano ammaliati dalle magiche curve che un corso d’acqua disegnava davanti a loro nella sabbia.
Più che ai regnanti, però, rivolgevo la mia attenzione ai piedistalli, perché le scene che vi erano rappresentate, pur non essendo chiari i riferimenti, erano più vicine. Che questo labirinto avesse una sua importanza, l’ho avvertito da sempre in quell’ampio e insignificante spiazzo che per nulla lasciava presagire come qui, solo a pochi passi dalla fila delle carrozze e delle vetture di piazza, dormisse la parte più misteriosa del parco.
Ne ebbi molto presto un segno. In quel punto, infatti, o non lontano, deve aver avuto la sua dimora quell’Arianna alla cui presenza per la prima volta avvertii ciò di cui solo più tardi appresi il nome: l’amore. Purtroppo nella sua sorgente compare la <
E così questo parco, che come nessun altro sembrava aperto ai bambini, per me era sbarrato da difficoltà e ostacoli insuperabili. Raramente distinguevo i pesci rossi nello stagno. Quante cose prometteva, col suo nome, il Hofjägerallee , e quanto poche ne manteneva. Quante volte perlustrai invano la boscaglia in cui si trovava un chiosco dalle torrette rosse, bianche e blu in stile scatola di costruzioni Anker. Inconsolabile a ogni primavera torna il mio amore per il principe Luigi Ferdinando, ai cui piedi c’erano i primi crochi e i primi narcisi. Un corso d’acqua che mi separava da loro me li faceva apparire così intoccabili come se fossero stati sotto una campana di vetro. Così, in quest’algida bellezza doveva poggiare la natura principesca, e compresi perché Luise von Landau, con la quale fino alla sua morte aveva condiviso la cerchia, doveva avere dimora lungo il Lüzsowufer di fronte al piccolo tratto di vegetazione selvaggia i cui fiori vengono bagnati dalle acque del canale.
Più tardi scoprii nuovi cantucci; di altri perfezionai la conoscenza. Eppure su questo nessuna ragazza, nessuna esperienza, nessun libro potè dirmi alcunchè di nuovo. Quando perciò, trent’anni più tardi, una persona esperta dei luoghi, un contadino di Berlino , si prese cura di me per fare ritorno dopo lunga separazione comune dalla città, i suoi percosrsi solcarono questo parco in cui egli seminava le semente del silenzio. Avanzava lungo i viottoli, e ognuno si faceva scosceso. Conducevano giù, se non alle Madri di ogni esistere, certamente a quelle di questo parco. Nell’asfalto che calpestava, i suoi passi destavano un’eco. La luce a gas che illuminava il nostro selciato spandeva su quel terreno un chiarore ambiguo.
Le piccole scale, gli atri a colonnato, i fregi e gli architravi delle ville del Tiergarten – fummo noi a prenderli per la prima volta in parola. Soprattutto le trombe delle scale che con le loro vetrate erano rimaste le stesse, anche se all’interno, dove si abitava, molto era stato cambiato. Ricordo ancora i versi che dopo la scuola colmavano gli intervalli del mio battito cardiaco quando salendo le scale riprendevo fiato. Mi si presentavano in una luce soffusa dalla vetrata da cui, sospesa come la Madonna Sistina, una donna fuoriusciva da una nicchia reggendo in mano una corona. Sollevando con i pollici le cinghie della cartella che avevo in spalla leggevo:“Il lavoro è il decoro dell’uomo La prosperità il premio della fatica”. In basso la porta si richiudeva con un sospiro, come uno spettro che fa ritorno nella sua tomba. Fuori forse pioveva. Una delle variopinte vetrate era rimasta aperta, e accompagnati dal ticchettio della pioggia si continuava a salire le scale.
Fra le cariatidi e gli atlanti, fra i putti e le pomone che allora mi avevano osservato, le più care mi erano ora le polverose figure della famiglia dei numi tutelari che proteggono l’ingresso nella vita e nella casa. Ben sanno infatti cosa significhi attendere.
E così per loro era lo stesso aspettare un estraneo, il ritorno delle antiche divinità, o il bambino che trent’anni prima, con la sua cartella, era passato accanto al loro piede. Nel loro segno il vecchio Westen si trasformò nel Westen antico dal quale ai naviganti che prima di ormeggiarsi al ponte di Ercole, lentamente fanno risalire lungo il Landwehrkanal il vascello con i pomi delle Esperidi, giungono i venti di ponente. E come nella mia fanciullezza, l’idra e il leone nemeo ritrovavano il loro posto nella selvaggia vegetazione intorno al Großer Stern .
Walter Benjamin
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