William Turner – paesaggio con fiume e montagne in lontananza
VERSO MONET
Turner – L’eruzione delle Souffrier Mountains nell’isola di San Vincenzo a mezzanotte
Turner – L’eruzione delle Souffrier Mountains nell’isola di San Vincenzo a mezzanotte
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Nell’osservare i quadri di William Turner (1775-1851) ogni volta si ripete la medesima sensazione: qualcosa di indefinibile ci attrae. Ma non è sufficiente sviluppare un immediato sentimento di ammirazione nei confronti delle sue opere: per non perderne l’essenza straordinaria, occorre entrare in ciò che vediamo quasi fisicamente, mollando i freni senza timore. Ogni immagine, infatti, si presenta come un sentiero inesplorato e mai completamente esplorabile, la cui unica uscita sarà il punto d’entrata.
Penetrare in esse significa provare quel senso di smarrimento e di umana solitudine (anche se più corretto sarebbe dire “di umana finitudine”) che l’autore, con ogni sua energia artistica, ha cercato senza sosta di trasmettere. Così facendo, oltretutto, riusciremmo ad eliminare dal dipinto ogni suo contorno, ed è proprio quello che Turner desiderava, intendendo la gran parte della sua produzione un unico, prolungato pensiero, senza margini delimitanti. Un territorio luminoso e notturno registrato dal vivo, attraverso una moltitudine di acquerelli di paralizzante bellezza e poi rielaborato in studio, anche dopo anni, attraverso la forza del ricordo nel cui alveo, appunto, scorrono le emozioni.
Penetrare in esse significa provare quel senso di smarrimento e di umana solitudine (anche se più corretto sarebbe dire “di umana finitudine”) che l’autore, con ogni sua energia artistica, ha cercato senza sosta di trasmettere. Così facendo, oltretutto, riusciremmo ad eliminare dal dipinto ogni suo contorno, ed è proprio quello che Turner desiderava, intendendo la gran parte della sua produzione un unico, prolungato pensiero, senza margini delimitanti. Un territorio luminoso e notturno registrato dal vivo, attraverso una moltitudine di acquerelli di paralizzante bellezza e poi rielaborato in studio, anche dopo anni, attraverso la forza del ricordo nel cui alveo, appunto, scorrono le emozioni.
William Turner- Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi
Non a caso, quando nel 1812 presentò la grande e impressionante tela intitolata “Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi”, volle collocarla in una posizione insolitamente bassa, proprio per dar modo al visitatore di varcarne la soglia. Lui stesso voleva entrare nel paesaggio che andava ritraendo, per coglierne le prospettive meno accessibili, ma anche per stabilire col soggetto un dialogo privato. Ciò accadeva soprattutto durante i suoi numerosi viaggi (in Italia venne tre volte), fermandosi incantato di fronte a un crepaccio o salendo di notte sul tetto dell’hotel Europa a Venezia, per cogliere la città rischiarata dalla luna, tenendo nel cuore Canaletto e nella mente le contemporanee vedute di Ippolito Caffi.
Partecipare alla scena, è una pre-condizione estendibile ad ogni forma d’arte. Turner però la trasforma in regola assoluta. Così accade anche con Friedrich, l’altro perno della pittura romantica, a sua volta ipnotizzato dalla luce, per entrambi intesa come l’espressione più alta del “sublime”. Una luce che si fa verso, suono, filo conduttore. In questi anni, pur con sensibilità diverse e mai come prima di allora era capitato, le varie forme del pensiero e dell’arte – musica, poesia, filosofia- iniziarono a sviluppare un medesimo sentire, teso ad indagare l’uomo in una sua più autentica misura. Non più visto come peccatore in attesa di un riscatto divino o come eroe al centro dell’universo, capace con una leva di sollevare il mondo, bensì raffigurato nella sua reale fragilità, determinata dal transitare veloce dell’esistenza. Cos’altro potrebbe indicare in modo più fedele questo sentimento, se non creando paragoni efficaci con la diversa grandiosità (Friedrich) e l’incontenibile irruenza (Turner) della natura, con i suoi ritmi e con le sue incontenibili aritmie?
Assieme alla forza del mare, ai vortici d’aria capaci di squarciare il cielo con fulmini improvvisi, agli irati movimenti della terra, è il fuoco ad attrarre in modo irresistibile l’attenzione di Turner. Il fascino distruttivo provocato dalle fiamme entrerà a più riprese nella sua pittura, sollecitato da episodi reali. Come quando, nell’ottobre del 1834, si precipitò con i pennelli lungo il Tamigi per assistere – prima assieme alla folla e poi direttamente sull’acqua e a ridosso delle squadre di soccorso – all’incendio del Parlamento inglese (come nota a margine, le cronache riferiscono che, nel momento in cui crollò il tetto, si sentì distintamente partire un lungo applauso). O come quando, nel 1815, dedicherà uno dei suoi dipinti più intensi e spettacolari all’eruzione “a mezzanotte” delle Soufrièr Mountains nell’isola caraibica di San Vincenzo, interpretata attraverso i resoconti del tempo. Dipinto solitamente custodito alla Victoria Gallery di Liverpool e ancora per pochi giorni (sino al 4 maggio) alle pareti della mostra “Verso Monet”, in Basilica Palladiana, a Vicenza.
Partecipare alla scena, è una pre-condizione estendibile ad ogni forma d’arte. Turner però la trasforma in regola assoluta. Così accade anche con Friedrich, l’altro perno della pittura romantica, a sua volta ipnotizzato dalla luce, per entrambi intesa come l’espressione più alta del “sublime”. Una luce che si fa verso, suono, filo conduttore. In questi anni, pur con sensibilità diverse e mai come prima di allora era capitato, le varie forme del pensiero e dell’arte – musica, poesia, filosofia- iniziarono a sviluppare un medesimo sentire, teso ad indagare l’uomo in una sua più autentica misura. Non più visto come peccatore in attesa di un riscatto divino o come eroe al centro dell’universo, capace con una leva di sollevare il mondo, bensì raffigurato nella sua reale fragilità, determinata dal transitare veloce dell’esistenza. Cos’altro potrebbe indicare in modo più fedele questo sentimento, se non creando paragoni efficaci con la diversa grandiosità (Friedrich) e l’incontenibile irruenza (Turner) della natura, con i suoi ritmi e con le sue incontenibili aritmie?
Assieme alla forza del mare, ai vortici d’aria capaci di squarciare il cielo con fulmini improvvisi, agli irati movimenti della terra, è il fuoco ad attrarre in modo irresistibile l’attenzione di Turner. Il fascino distruttivo provocato dalle fiamme entrerà a più riprese nella sua pittura, sollecitato da episodi reali. Come quando, nell’ottobre del 1834, si precipitò con i pennelli lungo il Tamigi per assistere – prima assieme alla folla e poi direttamente sull’acqua e a ridosso delle squadre di soccorso – all’incendio del Parlamento inglese (come nota a margine, le cronache riferiscono che, nel momento in cui crollò il tetto, si sentì distintamente partire un lungo applauso). O come quando, nel 1815, dedicherà uno dei suoi dipinti più intensi e spettacolari all’eruzione “a mezzanotte” delle Soufrièr Mountains nell’isola caraibica di San Vincenzo, interpretata attraverso i resoconti del tempo. Dipinto solitamente custodito alla Victoria Gallery di Liverpool e ancora per pochi giorni (sino al 4 maggio) alle pareti della mostra “Verso Monet”, in Basilica Palladiana, a Vicenza.
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William Turner- l’eruzione delle Souffrier Mountains nell’isola di San Vincenzo a mezzanotte- 1815
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Furono anni segnati da una sequenza impressionante di eruzioni: 1812 Mayon, nelle Filippine; 1813 Soufrièr, appunto; 1815 la devastante esplosione del Tambora, durante la quale il cono della montagna passò dai 4100 metri iniziali ai 2850 successivi. Tutto questo lasciò sospeso nella stratosfera per molte stagioni un denso velo di polvere che, frapponendosi ai raggi solari, fu in grado di influenzare il clima, opacizzando la luce ma, anche, in seguito, infuocando i tramonti. In quei momenti Lord Byron scrisse: “Ebbi un sogno che non era completamente un sogno. Il sole radioso si era spento (…) la terra era coperta di ghiacci” e poi “il mattino venne e svanì, ritornò senza portare il giorno”. Ed è per questo che il 1816 fu chiamato l’anno senza estate.
Turner non fu solo amato. Di questo ragazzo prodigio – figlio di un di un barbiere fabbricante di parrucche, nella cui bottega, appena dodicenne, espose i primi disegni – si disse che “inzuppava i colori nella melassa” o che ottenesse porosità luminose con “calce da imbianchino” o, ancora, che le sue tonalità gialle, forse rembrandtiane, arrivassero alla tela non spremendo tubetti di colore ma “barattoli di senape”. Di sicuro, egli ha pagato a caro prezzo la propria genialità e non poteva essere diversamente se pensiamo che, nel precorrere i tempi, ha raggiunto con mezzo secolo di anticipo risultati molto simili a quelli degli impressionisti, svaporando i contorni, in modo da rendere visibile la consistenza di stati d’animo raccolti “in piena luce” (interiore), arrivando quasi a contatto con gli esiti dell’arte informale, come a suo tempo scrisse Arcangeli. Anzi, a guardare i suoi ultimi dipinti, ne scavalca addirittura i raggiungimenti espressivi (nella mostra in Basilica ne è esempio eccellente l’altra sua opera “Paesaggio con fiume e montagne in lontananza”). Si può anzi affermare, mascherando le date, che egli ha proseguito per suo conto la strada aperta dall’anziano Monet, spingendosi avanti con intuizioni ancor più coraggiose. Non solo “Verso Monet” dunque, ma anche oltre. Davvero impressionante.
Furono anni segnati da una sequenza impressionante di eruzioni: 1812 Mayon, nelle Filippine; 1813 Soufrièr, appunto; 1815 la devastante esplosione del Tambora, durante la quale il cono della montagna passò dai 4100 metri iniziali ai 2850 successivi. Tutto questo lasciò sospeso nella stratosfera per molte stagioni un denso velo di polvere che, frapponendosi ai raggi solari, fu in grado di influenzare il clima, opacizzando la luce ma, anche, in seguito, infuocando i tramonti. In quei momenti Lord Byron scrisse: “Ebbi un sogno che non era completamente un sogno. Il sole radioso si era spento (…) la terra era coperta di ghiacci” e poi “il mattino venne e svanì, ritornò senza portare il giorno”. Ed è per questo che il 1816 fu chiamato l’anno senza estate.
Turner non fu solo amato. Di questo ragazzo prodigio – figlio di un di un barbiere fabbricante di parrucche, nella cui bottega, appena dodicenne, espose i primi disegni – si disse che “inzuppava i colori nella melassa” o che ottenesse porosità luminose con “calce da imbianchino” o, ancora, che le sue tonalità gialle, forse rembrandtiane, arrivassero alla tela non spremendo tubetti di colore ma “barattoli di senape”. Di sicuro, egli ha pagato a caro prezzo la propria genialità e non poteva essere diversamente se pensiamo che, nel precorrere i tempi, ha raggiunto con mezzo secolo di anticipo risultati molto simili a quelli degli impressionisti, svaporando i contorni, in modo da rendere visibile la consistenza di stati d’animo raccolti “in piena luce” (interiore), arrivando quasi a contatto con gli esiti dell’arte informale, come a suo tempo scrisse Arcangeli. Anzi, a guardare i suoi ultimi dipinti, ne scavalca addirittura i raggiungimenti espressivi (nella mostra in Basilica ne è esempio eccellente l’altra sua opera “Paesaggio con fiume e montagne in lontananza”). Si può anzi affermare, mascherando le date, che egli ha proseguito per suo conto la strada aperta dall’anziano Monet, spingendosi avanti con intuizioni ancor più coraggiose. Non solo “Verso Monet” dunque, ma anche oltre. Davvero impressionante.
Silvio Lacasella
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William Turner- autoritratto ,1798
via Cartesensibili
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