“Dove devo andare, ora, io, un Trotta?...”. E’ la chiusura de “La cripta dei cappuccini” di Joseph Roth. Chiusa inconsueta per un romanzo: piuttosto un’apertura su altro come le domande, se non sono retoriche, sanno essere.
Le vicende sono quelle di Francesco Ferdinando Trotta, un rappresentante della declinante dinastia asburgica (“non c’è nobiltà senza generosità, come non c’è brama di vendetta senza volgarità”) nel passaggio dall’800 al 900, attraverso la prima guerra mondiale (“non già perché l’ha fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo. Nel momento in cui la guerra fu lì inevitabile, davanti a me, capii subito che persino una morte assurda era preferibile a una vita assurda”) e fino all’avvento del nazismo. Vicende personali e collettive, attraversate senza poter sopprimere la grandezza dell’umanità che vive la ribellione, l’inedia, lo stordimento, la ricerca della felicità e l’inseguimento inesausto di significato sull’esistenza.
La domanda del finale non è, perciò, teorica e, ripensando allo scorrere del romanzo, si capisce che riguarda l’avvenimento concreto della vita di ognuno e il senso che diamo all’uomo che sono io e sei tu, al senso che diamo alla storia, al tempo e alla realtà contingente, cioè alla realtà che i nostri occhi vedono nascere e morire.
Le vicende sono quelle di Francesco Ferdinando Trotta, un rappresentante della declinante dinastia asburgica (“non c’è nobiltà senza generosità, come non c’è brama di vendetta senza volgarità”) nel passaggio dall’800 al 900, attraverso la prima guerra mondiale (“non già perché l’ha fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo. Nel momento in cui la guerra fu lì inevitabile, davanti a me, capii subito che persino una morte assurda era preferibile a una vita assurda”) e fino all’avvento del nazismo. Vicende personali e collettive, attraversate senza poter sopprimere la grandezza dell’umanità che vive la ribellione, l’inedia, lo stordimento, la ricerca della felicità e l’inseguimento inesausto di significato sull’esistenza.
La domanda del finale non è, perciò, teorica e, ripensando allo scorrere del romanzo, si capisce che riguarda l’avvenimento concreto della vita di ognuno e il senso che diamo all’uomo che sono io e sei tu, al senso che diamo alla storia, al tempo e alla realtà contingente, cioè alla realtà che i nostri occhi vedono nascere e morire.
T.B.
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