domenica 18 marzo 2012

LA MORTE DELLA PIZIA (Parte terza) Friedrich Dürrenmatt






ai sentito” disse Pannychis. E Merops le confermò che neanche lui lo conosceva.
“Chi è il re di Tebe?” domandò ancora la Pizia?
“Edipo” fu la risposta di Merops XXVII.
“Mai sentito neanche questo” disse la Pannychis XI, che davvero si era scordata di Edipo.
“Non lo conosco neanch’io” confermò Merops, contento di togliersi di torno la vecchia, e subito porse il foglietto con l’oracolo che Tiresia aveva formulato a regola d’arte.
“Giambi,” disse lei con un altro sospiro, dopo aver dato un’occhiata al foglietto “figurarsi se quello rinunciava a scrivere in versi”.
E il giorno seguente, poco prima della chiusura del santuario, la Piziache si cullava sul tripode beatamente avvolta da tiepidi fumi udì tutt’a un tratto una flebile vocina, quasi un belato: le stava parlando un tebano di nome Creonte, e allora lei recitò il suo responso, certo, non con la scioltezza di un tempo, a un certo punto dovette perfino ricominciare da capo: “Con chiare parole Apollo ti impone di non rendere irreparabile il delitto di sangue che infesta il paese… Con chiare parole Apollo ti impone di non rendere irreparabile il delitto di sangue che infesta il paese, bensì di estirparlo. Il sangue va espiato col sangue, oppure con l’esilio. Il sangue ha lordato il paese. Per la morte di Laio, Febo chiama vendetta su coloro che l’hanno assassinato. E’ questo il suo comandamento”.
E la Pizia tacque, contenta di essersela cavata più decentemente, il metro non era privo di difficoltà; tutt’a un tratto Pannychis si sentì fiera di se stessa, aveva dimenticato tutte le sue ambasce. Il tebano – com’è che si chiamava, dunque? - se l’era svignata già da parecchio e lei riprese a sonnecchiare.
A volte Pannychis si fermava sulla soglia del santuario. Davanti a lei si estendeva il grande cantiere del tempio di Apollo, e più in là erano state già erette tre colonne del portico delle Muse. Malgrado la calura insopportabile, lei tremava di freddo. Quelle rupi, qui boschi, quel mare… tutto era solo impostura, un suo sogno, e un giorno, passato il sogno, ogni cosa sarebbe finita, Pannychis sapeva benissimo che tutto era inventato di sana pianta, a cominciare da lei, la Pizia, che veniva spacciata per la sacerdotessa di Apollo pur essendo soltanto un’imbrogliona che improvvisava gli oracoli a casaccio secondo l’umore del momento. E ormai era molto vecchia, vecchissima, decrepita, lei stessa non sapeva più quanto. Gli oracoli di ordinaria amministrazione li sbrigava la sua allieva Glykera V, la Pizia che le sarebbe succeduta; Pannychis era stufa marcia di dondolarsi su e giù in quei perpetui vapori, anche se certo, una volta alla settimana, per un principe danaroso o magari per un tiranno accettava di accomodarsi sul tripode e vaticinava; in questo anche Merops era disposto a venirle incontro.
Fu così che un giorno, mentre era seduta al sole che le faceva un gran bene, tanto che aveva chiuso gli occhi per non vedere più quel paesaggio delfico schifosamente kitsch, appoggiata al muro del santuario prospiciente il portale laterale, profondamente immersa nei suoi pensieri, di fronte a sé la colonna ofitica non ancora terminata, la Pizia sentì ad un tratto che qualcosa, forse già da molte ore, si ergeva davanti a lei, qualcosa che la intrigava e da cui si sentiva provocata, e quando aprì gli occhi, non subito ma anzi con grande cautela – quasi le sembrava di dover prima reimparare a farlo – e quando finalmente guardò, vide una figura immane che si appoggiava a un’altra figura non meno immane, e mentre Pannychis XI continuava a guardare aguzzando la vista, le due immani figure si raggricciarono e assunsero dimensione umana, e lei riconobbe allora un cencioso mendicante che si appoggiava a una mendicante altrettanto cenciosa. La mendicante era una fanciulla. Il mendicante fissò Pannychis con gli occhi sbarrati, ma non aveva gli occhi, al posto degli occhi c’erano due grandi buchi pieni di sangue nero raggrumato.
“Sono Edipo” disse il mendicante.

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