’è
ancora qualcun altro che hai ucciso” intervenne la Pizia.
“E
chi?” domandò Edipo in tono di meraviglia.
“La Sfinge” rispose Pannychis.
Edipo
rimase un momento silenzioso, come per rammentare qualcosa, quindi sorrise.
“La
Sfinge” disse “era un mostro con testa di donna, corpo di leone, coda di
serpente, ali di aquila, e poneva un ridicolo enigma. Si gettò nella vallata
sottostante il monte Ficio, sicchè, quando a Tebe io sposai Giocasta… Lo sai,
Pannychis, bisogna che te lo dica, la tua morte è vicina, e quindi è giusto che
tu lo sappia: ho odiato i miei veri genitori come di più non si può, volevano
gettarmi in pasto agli animali feroci, io non sapevo chi fossero, eppure
dall’oracolo di Apollo mi sentii liberato: nello stretto valico tra Delfi e
Daulide, preso da sacro furore, scagliai giù Laio dal suo cocchio, e poiché lui
si era impigliato nelle redini io frustai i cavalli che trascinarono il suo
corpo nella polvere fino alla morte, e, mentre lui rantolava, io mi accorsi,
nel fossato lì accanto, del suo auriga che avevo ferito con la lancia. “Come si
chiamava il tuo padrone?” gli domandai. Egli mi guardò fisso negli occhi e
tacque. “Ebbene?” ripetei con voce imperiosa. E lui allora mi disse quel nome,
avevo fatto trascinare nella polvere fino alla morte il re di Tebe e quando on
furibonda impazienza seguitai a interrogarlo, l’auriga disse anche il nome
della regina di Tebe. Quell’uomo mi aveva fatto i nomi dei miei genitori. Non
potevo permettere che ci fossero testimoni. Tolsi dunque la lancia dalla sua
ferita e lo colpii di nuovo, più profondamente. Egli spirò. E quando ebbi
estratto la lancia dal corpo dell’auriga ormai senza vita, mi accorsi che Laio
mi stava guardando. Era ancora vivo. Senza dire una parola, lo trafissi da
parte a parte.
Volevo
diventare il re di Tebe e questa era anche la volontà degli dei, e allora
trionfalmente mi accoppiai con mia madre, molte, moltissime volte e con astio
scellerato le piantai quattro figli nella pancia, perché questo volevano gli dei,
quegli dei che odiavo ancor più dei miei genitori, e ogni volta che montavo mia
madre il mio odio per loro diventava più grande. Gli dèi avevano decretato
quella mostruosità e dunque quella mostruosità doveva compiersi, e quando
Creonte ritornò dall’oracolo di Delfi con il responso di Apollo che la peste
non si sarebbe mitigata se prima non fosse stato trovato l’assassino di Laio,
allora io seppi finalmente come mai gli dei avevano escogitato un destino tanto
crudele, e che avevano in animo di far fuori me,proprio me che aveva fatto la
loro volontà. Trionfalmente mi feci il processo da solo, trionfalmente trovai
Giocasta impiccata nelle sue stanze e trionfalmente mi trafissi gli occhi e li
strappai dalle orbite: invero gli dèi mi avevano fatto dono del privilegio più
grande che mente umana possa concepire, la sublime libertà di odiare quelli che
ci hanno messo al mondo, i genitori, e poi gli antenati, che a loro volta hanno
generato i genitori e, ancor più in su, gli dèi che hanno generato gli antenati
e i genitori, e se adesso, cieco e mendico, vado errando ramingo per la Grecia,
non è certo per magnificare la potenza degli dèi, bensì per dileggiarla”.
Pannychis
era seduta sul tripode. Non sentiva più niente. Forse sono già morta, pensava,
e solo dopo un po’ si rese conto che, circonfusa dai vapori, si stagliava
davanti a lei una donna con gli occhi chiari e i rossi, incolti capelli.
“Sono
Giocasta,” disse la donna “so tutto fin dalla prima notte di nozze, quando
Edipo mi raccontò la sua vita. Era così aperto, Edipo, così sincero e, per
Apollo, di una tale ingenuità… pensa che era perfino orgoglioso di essere
riuscito a sottrarsi al decreto degli dèi – quasi che fosse possibile sottrarsi
a un simile decreto – in quanto non era tornato a Corinto, non aveva colpito a
morte Polibio né sposato Merope che, a quell’epoca, credeva ancora i suoi
genitori. Che fosse mio figlio io l’avevo intuito subito, fin dalla prima notte
in cui Edipo mise piede a Tebe. Ancora non sapevo che Laio era morto. Riconobbi
Edipo dalle cicatrici ai calcagni quando lui, nudo, si distese accanto a me, ma
non gli dissi nulla, perché del resto avrei dovuto dirglielo, gli uomini sono
tutti talmente suscettibili, e per lo stesso motivo non gli dissi neppure che
Laio non era suo padre, cosa di cui ora è ovviamente convinto; il padre di
Edipo era l’ufficiale della guardia Mnesippo, un chiacchierone del tutto
insignificante ma provvisto di doti sorprendenti in un campo nel quale i
discorsi non servono a niente. Fatalità volle che egli sorprendesse Edipo nella
mia stanza proprio la prima notte in cui il mio figliolo e futuro marito venne
a trovarmi e, dopo un breve e rispettoso saluto, salì sul mio letto e si sdraiò
accanto a me. Evidentemente Mnesippo voleva difendere l’onore di Laio, proprio
che lui che certo non si era mai preso a cuore particolarmente l’onore di mio
marito. Io feci giusto in tempo a mettere la spada in mano a Edipo; seguì un
breve combattimento, Mnesippo non era mai stato un valente spadaccino. E se
Edipo abbandonò il suo corpo in pasto agli avvoltoi non fu per crudeltà, ma per
biasimo sportivo, Mnesippo aveva combattuto in maniera davvero pietosa. Beh…
l’effetto fu orripilante, gli sportivi, si sa, sono gente che non scherza. E
siccome non potevo dire a Edipo come
stavano veramente le cose perché se l’avessi fatto mi sarei messa contro la
volontà degli dèi, per lo stesso motivo non potei impedirgli di prendermi in
moglie, ed ero atterrita, Pannychis, vedevo con raccapriccio che il tuo oracolo
si stava avverando senza che io potessi farci nulla: un figlio che sale su un
letto accanto a sua madre, oh, Pannychis, credevo di svenire dall’orrore e sono
invece svenuta dal piacere, mai in vita mia ho goduto con tanta violenza come
quando mi sono data a Edipo; e dal mio ventre schizzarono il magnifico Polinice
e Antigone, come me rossa di capelli, e la tenera Ismene, ed Eteocle, l’eroe.
Dandomi a Edipo, mi vendicai di Laio che aveva lasciato mio figlio in pasto
alle belve e poi, per anni e anni, aveva fatto piangere il mio bimbo perduto, e
così, a ogni amplesso di Edipo io ero in totale accordo col volere degli dèi
che avevano decretato quella mia passione per l’impetuoso ragazzo, e poi il mio
sacrificio. Per Zeus, Pannychis, innumerevoli uomini sono venuti sopra di me,
ma io ho amato solamente Edipo, destinato dagli dèi a diventare mio sposo
affinché io, unica tra le donne mortali, soggiacessi non già ad un uomo
estraneo, bensì a colui che avevo generato, e dunque a me stessa. Il mio
trionfo è questo: Edipo mi amò senza sapere che io ero sua madre; la cosa più
innaturale è diventata naturalissima: è questa l’unica felicità che gli dèi mi
hanno concesso. A loro maggior gloria mi sono impiccata, o meglio, non l’ho
fatto io stessa, mi ha impiccata Molorco, il primo ufficiale della guardia di Edipo,
il successore di Mnesippo. Infatti, quando venne a sapere che io ero la madre
di Edipo, Molorco, che era tremendamente geloso del secondo ufficiale della
guardia di nome Merione, entrò a precipizio nella mia stanza, e gridò: “Guai a
te, o donna incestuosa” mi impiccò all’architrave della porta. Tutti credono
che io mi sia impiccata con le mie mani. Anche Edipo ne è convinto, e poiché
per decreto degli dèi egli ama più me della luce dei suoi occhi, si è accecato
da solo: tanto grande è la passione che Edipo nutre per me, sua madre e al
tempo stesso la sua donna. Ma forse Molorco non era affatto geloso di Merione
ma piuttosto di Melonteo – è buffo, per decreto degli dèi tutti i miei
ufficiali della guardia cominciavano con M, ma questo è davvero irrilevante, la
cosa principale, penso, è che io per decreto degli dèi ho potuto,
giubilando, porre fine alla mia
esistenza. In lode di Edipo, mio figlio e sposo, Edipo che per decreto degli
dèi ho amato più di ogni altro uomo, e a gloria di Apollo, che per mezzo delle
tue parole, o Pannychis, ha annunciato la verità”.