lunedì 24 settembre 2012

La Morte della Pizia (Parte Ottava)










’è ancora qualcun altro che hai ucciso” intervenne la Pizia.
“E chi?” domandò Edipo in tono di meraviglia.
“La Sfinge” rispose Pannychis.                        
Edipo rimase un momento silenzioso, come per rammentare qualcosa, quindi sorrise.
“La Sfinge” disse “era un mostro con testa di donna, corpo di leone, coda di serpente, ali di aquila, e poneva un ridicolo enigma. Si gettò nella vallata sottostante il monte Ficio, sicchè, quando a Tebe io sposai Giocasta… Lo sai, Pannychis, bisogna che te lo dica, la tua morte è vicina, e quindi è giusto che tu lo sappia: ho odiato i miei veri genitori come di più non si può, volevano gettarmi in pasto agli animali feroci, io non sapevo chi fossero, eppure dall’oracolo di Apollo mi sentii liberato: nello stretto valico tra Delfi e Daulide, preso da sacro furore, scagliai giù Laio dal suo cocchio, e poiché lui si era impigliato nelle redini io frustai i cavalli che trascinarono il suo corpo nella polvere fino alla morte, e, mentre lui rantolava, io mi accorsi, nel fossato lì accanto, del suo auriga che avevo ferito con la lancia. “Come si chiamava il tuo padrone?” gli domandai. Egli mi guardò fisso negli occhi e tacque. “Ebbene?” ripetei con voce imperiosa. E lui allora mi disse quel nome, avevo fatto trascinare nella polvere fino alla morte il re di Tebe e quando on furibonda impazienza seguitai a interrogarlo, l’auriga disse anche il nome della regina di Tebe. Quell’uomo mi aveva fatto i nomi dei miei genitori. Non potevo permettere che ci fossero testimoni. Tolsi dunque la lancia dalla sua ferita e lo colpii di nuovo, più profondamente. Egli spirò. E quando ebbi estratto la lancia dal corpo dell’auriga ormai senza vita, mi accorsi che Laio mi stava guardando. Era ancora vivo. Senza dire una parola, lo trafissi da parte a parte.
Volevo diventare il re di Tebe e questa era anche la volontà degli dei, e allora trionfalmente mi accoppiai con mia madre, molte, moltissime volte e con astio scellerato le piantai quattro figli nella pancia, perché questo volevano gli dei, quegli dei che odiavo ancor più dei miei genitori, e ogni volta che montavo mia madre il mio odio per loro diventava più grande. Gli dèi avevano decretato quella mostruosità e dunque quella mostruosità doveva compiersi, e quando Creonte ritornò dall’oracolo di Delfi con il responso di Apollo che la peste non si sarebbe mitigata se prima non fosse stato trovato l’assassino di Laio, allora io seppi finalmente come mai gli dei avevano escogitato un destino tanto crudele, e che avevano in animo di far fuori me,proprio me che aveva fatto la loro volontà. Trionfalmente mi feci il processo da solo, trionfalmente trovai Giocasta impiccata nelle sue stanze e trionfalmente mi trafissi gli occhi e li strappai dalle orbite: invero gli dèi mi avevano fatto dono del privilegio più grande che mente umana possa concepire, la sublime libertà di odiare quelli che ci hanno messo al mondo, i genitori, e poi gli antenati, che a loro volta hanno generato i genitori e, ancor più in su, gli dèi che hanno generato gli antenati e i genitori, e se adesso, cieco e mendico, vado errando ramingo per la Grecia, non è certo per magnificare la potenza degli dèi, bensì per dileggiarla”.
Pannychis era seduta sul tripode. Non sentiva più niente. Forse sono già morta, pensava, e solo dopo un po’ si rese conto che, circonfusa dai vapori, si stagliava davanti a lei una donna con gli occhi chiari e i rossi, incolti capelli.
“Sono Giocasta,” disse la donna “so tutto fin dalla prima notte di nozze, quando Edipo mi raccontò la sua vita. Era così aperto, Edipo, così sincero e, per Apollo, di una tale ingenuità… pensa che era perfino orgoglioso di essere riuscito a sottrarsi al decreto degli dèi – quasi che fosse possibile sottrarsi a un simile decreto – in quanto non era tornato a Corinto, non aveva colpito a morte Polibio né sposato Merope che, a quell’epoca, credeva ancora i suoi genitori. Che fosse mio figlio io l’avevo intuito subito, fin dalla prima notte in cui Edipo mise piede a Tebe. Ancora non sapevo che Laio era morto. Riconobbi Edipo dalle cicatrici ai calcagni quando lui, nudo, si distese accanto a me, ma non gli dissi nulla, perché del resto avrei dovuto dirglielo, gli uomini sono tutti talmente suscettibili, e per lo stesso motivo non gli dissi neppure che Laio non era suo padre, cosa di cui ora è ovviamente convinto; il padre di Edipo era l’ufficiale della guardia Mnesippo, un chiacchierone del tutto insignificante ma provvisto di doti sorprendenti in un campo nel quale i discorsi non servono a niente. Fatalità volle che egli sorprendesse Edipo nella mia stanza proprio la prima notte in cui il mio figliolo e futuro marito venne a trovarmi e, dopo un breve e rispettoso saluto, salì sul mio letto e si sdraiò accanto a me. Evidentemente Mnesippo voleva difendere l’onore di Laio, proprio che lui che certo non si era mai preso a cuore particolarmente l’onore di mio marito. Io feci giusto in tempo a mettere la spada in mano a Edipo; seguì un breve combattimento, Mnesippo non era mai stato un valente spadaccino. E se Edipo abbandonò il suo corpo in pasto agli avvoltoi non fu per crudeltà, ma per biasimo sportivo, Mnesippo aveva combattuto in maniera davvero pietosa. Beh… l’effetto fu orripilante, gli sportivi, si sa, sono gente che non scherza. E siccome non potevo dire  a Edipo come stavano veramente le cose perché se l’avessi fatto mi sarei messa contro la volontà degli dèi, per lo stesso motivo non potei impedirgli di prendermi in moglie, ed ero atterrita, Pannychis, vedevo con raccapriccio che il tuo oracolo si stava avverando senza che io potessi farci nulla: un figlio che sale su un letto accanto a sua madre, oh, Pannychis, credevo di svenire dall’orrore e sono invece svenuta dal piacere, mai in vita mia ho goduto con tanta violenza come quando mi sono data a Edipo; e dal mio ventre schizzarono il magnifico Polinice e Antigone, come me rossa di capelli, e la tenera Ismene, ed Eteocle, l’eroe. Dandomi a Edipo, mi vendicai di Laio che aveva lasciato mio figlio in pasto alle belve e poi, per anni e anni, aveva fatto piangere il mio bimbo perduto, e così, a ogni amplesso di Edipo io ero in totale accordo col volere degli dèi che avevano decretato quella mia passione per l’impetuoso ragazzo, e poi il mio sacrificio. Per Zeus, Pannychis, innumerevoli uomini sono venuti sopra di me, ma io ho amato solamente Edipo, destinato dagli dèi a diventare mio sposo affinché io, unica tra le donne mortali, soggiacessi non già ad un uomo estraneo, bensì a colui che avevo generato, e dunque a me stessa. Il mio trionfo è questo: Edipo mi amò senza sapere che io ero sua madre; la cosa più innaturale è diventata naturalissima: è questa l’unica felicità che gli dèi mi hanno concesso. A loro maggior gloria mi sono impiccata, o meglio, non l’ho fatto io stessa, mi ha impiccata Molorco, il primo ufficiale della guardia di Edipo, il successore di Mnesippo. Infatti, quando venne a sapere che io ero la madre di Edipo, Molorco, che era tremendamente geloso del secondo ufficiale della guardia di nome Merione, entrò a precipizio nella mia stanza, e gridò: “Guai a te, o donna incestuosa” mi impiccò all’architrave della porta. Tutti credono che io mi sia impiccata con le mie mani. Anche Edipo ne è convinto, e poiché per decreto degli dèi egli ama più me della luce dei suoi occhi, si è accecato da solo: tanto grande è la passione che Edipo nutre per me, sua madre e al tempo stesso la sua donna. Ma forse Molorco non era affatto geloso di Merione ma piuttosto di Melonteo – è buffo, per decreto degli dèi tutti i miei ufficiali della guardia cominciavano con M, ma questo è davvero irrilevante, la cosa principale, penso, è che io per decreto degli dèi ho potuto, giubilando,  porre fine alla mia esistenza. In lode di Edipo, mio figlio e sposo, Edipo che per decreto degli dèi ho amato più di ogni altro uomo, e a gloria di Apollo, che per mezzo delle tue parole, o Pannychis, ha annunciato la verità”.

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