“Perchè?” Forse è questa la prima domanda. “Perchè?”.
Ma scoppiano subito gli applausi. La sensazione di aver assistito ad una
performance difficile da definire rimane lì, sospesa. Reality prosegue e sviluppa lo studio precedente, Rzeczy/cose, in cui i due performer Daria Deflorian e Antonio Tagliarini giocavano e si interrogavano tra cumuli di oggetti, oggetti presi dalle loro case o
comprati ai mercatini, oggetti che sarebbero potuti appartenere alla loro
protagonista e che, accostati casualmente, commentati, fissati in un ricordo,
formavano come la sintesi di una vita.
La forza di questi due artisti,
, sta ancora una
volta nel rompere la frontalità dell’immedesimazione con il loro sguardo
laterale. Entrano ed escono dalla storia, attirati dalle scrupolose annotazioni
di Janinia Turek restando però lucidi nella loro ricerca.
“Che cos’è la realtà? Come raccontare una
vita?”
I due artisti la cercano ovunque. Inziando dalla
fine. Dalla morte di Janina. Con ironia. “Come rendere credibili gli ultimi
attimi della sua vita?” In strada, le buste della spesa in mano, l’infarto, la
caduta sull’asfalto. La posizione di gambe-mani-muscoli in quel momento, il
volto coperto dai capelli. Tra un aggiustamento anatomico e un formicolio
articolatorio finiamo nella vita di questa giovane donna polacca. Janina Turek. Morta nel 2000 lasciando gli ultimi anni della sua vita
meticolosamente annotati sui suoi diari. Insospettati. Persino dai suoi
familiari.
Srotoliamo la maniacale e compulsiva annotazione del
microcosmo di Janinia, la trascrizione asettica e oggettiva
dell’infinita serie di eventi, persone e ricorrenze che hanno scandito la sua
quotidianità, fino all’irruzione inattesa - in mezzo a tutto quel rigore – di
qualche indizio di soggettività. Daria Deflorian con la maestria del suo tono dimesso e Antonio Tagliarini con
la sua delicatezza scoprono infatti negli spazi vuoti,nelle
correzioni lasciate tra righe e numeri dei suoi 748 quaderni, un’altra possibile
realtà e ci restituiscono attraverso altre parole, quelle sfuggite alla sua
metodica annotazione - le cartoline che durante i viaggi Janina indirizzava a
se stessa – una sorta di confessione.
“La realtà non è che una possibilità, debole e fragile come
tutte le possibilità” direbbe Burroughs.
È proprio in questi interstizi fra realtà
oggettiva e realtà soggettiva che nasce questo spettacolo. Daria e Antonio non
“raccontano”, non “recitano”, non “creano personaggi” ma si avvicinano alle
trascrizioni di Janina, danno vita alle sue statistiche, alle svariate
categorie e nomenclature, costruiscono eventi del suo quotidiano, immaginano e
inventano scorci di vissuto a partire da un dettaglio o un numero ma subito
interrompono l’operazione. Smontano tutta la loro costruzione. Riavvolgono
questa soggettività “artificiale”. Tutto nel perimetro un pò stretto dell’autofiction-reportage-performance.
Affiora allora l’altro interrogativo. Come
dare vita, nella forma più adatta, ad una VITA? Qual è il modo più adatto per
penetrare nella vita di un essere umano, attraverso i suoi resti?
Ci soccorre in qualche modo l’ultima scena,
rivelatrice di tutto l’approccio estetico dello spettacolo. Daria evoca la
tradizione della danza balinese.Danza preparata meticolosamente dai suoi ballerini tutto l’anno, ripetendo
fino allo sfinimento tutti i suoi passi e i minuziosi dettagli del trucco, ma
eseguita e offerta al pubblico dietro a un telo bianco indossando una maschera.
Cosa
vede esattamente il pubblico dietro quel telo?
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