sabato 29 giugno 2013
The man with a hoe, Millet, 1862
"Il lavoro è fatica fine a se stessa", "Il lavoro è la mia vita", "Io lavoro per me stesso"... Sul lavoro si sentono delle sentenze morali che dovrebbero essere valide per tutti; come delle voci espresse dalla maggioranza degli uomini che sono con te nel tuo ambiente.
Se devi far carriera, il potere ti dice che il lavoro (inteso come la tua professione) deve essere il senso della tua vita, una passione finalizzata alla produttività, al circolo vizioso del "produci e compra quello che hai prodotto".
Se invece non sei ambizioso, ecco che il potere ti dice di farti da parte, di sottometterti, tento per te il lavoro non ha senso e non deve averlo; è la tua natura, che cosa ci vuoi fare?
Nel quadro di Millet vediamo l'uomo e il frutto del suo lavoro, nel campo zappato alle sue spalle. L'espressione è esausta, di chi ha terminato l'opera e si ferma a riposare, di chi vede l'assurdo della vita e si chiede il perché della fatica. E' sempre necessario, non superfluo o volontaristico, ricordare il perché del lavoro. Il perché è un fatto, accade nella storia. Uno lavora per condizione necessaria, per la sua struttura umana di essere pieno di bisogni: ha bisogno dei frutti della terra, per cui deve zappare il campo.
L'uomo è un dato, bisogna riconoscere prima di tutto il dato che siamo. Ed ecco che, vivendo da uomo una condizione, una situazione, uno la giudica; qui nasce la cultura, che è anch'essa un fatto; chi non giudica cade nella trappola di pensare con la testa della maggioranza.
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