Die gelbe Tapete (Le papier peint jaune)
Da Charlotte Perkins Gilman
Regia di Katie Mitchell
Parigi, Ateliers Berthier - Festival
d’Automne 2013
Katie Mitchell, ormai nota
al pubblico europeo per le sue originali regie, dà nuovamente prova della sua
bravura trasferendo l’intimità e l’estraneità di una tappezzeria gialla, dalle
“fantasie irregolari e sgargianti, inclini a ogni peccato artistico” in un
sofisticato dispositivo scenico che scardina ogni divisione netta tra interiorità
e realtà esterna.
Attualizzando nella Berlino
di oggi le pagine di rovente denuncia di Charlotte Perkins Gilman, la regista trasforma
il giallo cenere – apparentemente
irrilevante – della carta da parati che decora la stanza in cui è reclusa Anna
nel perno della sua progressiva follia.
Charlotte Perkins Gilman,
in scena Anna, caduta in un’acuta depressione post partum, sarà obbligata dal
proprio medico-marito a rimanere chiusa nella propria camera da letto in
assoluto riposo, lontana da qualsiasi contatto col mondo, precipitando così in
un delirio solitario.
Così come in “La signorina
Julie” ad Avignone, la tecnologia è qui al centro della produzione e non un
semplice sfondo accessorio. Le telecamere seguono infatti la donna negli spazi
angusti della stanza in cui è confinata e amplificano la sua progressiva
alienazione.
Katie Mitchell moltiplica le
piste visive e forza i diversi piani di percezione e lettura della pièce. Non si
limita solamente all’installazione di un enorme schermo che, sovrastando gli
spazi della casa, proietta a grande scala il delirio di Anna, o
“all’incursione” indiscreta dei
cameraman nel perimetro interno ed esterno della scena, ma installa a vista una cabina di regia– in cui rumoristi,
tecnici del suono e montatore video operano in tempo reale – e una cabina in
cui Ursina Landi doppia, o meglio dà voce, al flusso di coscienza ininterrotto
e precipitato della donna, mentre a Judith Engel muta sono affidati in scena i suoi gesti, le sue azioni, le sue
emozioni. Corpo e voce vengono magistralmente dissociati.
Questo dispositivo
schizoide gioca sulla sovrapposizione e sulla simultaneità in verticale, in
orizzontale e trasversalmente tra la realtà oggettiva e quella percepita. Le
immagini proiettate sullo schermo si aggiungono infatti a quelle della scena,
offrendo angolature diverse, piani ravvicinati e moltiplicando lo sguardo dello
spettatore, se non addirittura sostituendolo, là dove questo non può arrivare.
Allo schermo inoltre è
affidato da una parte il compito di mostrarci a intermittenza, durante tutto il
corso dello spettacolo, scene amatoriali che riprendono Anna, Christoph e il
figlio Max in un idyllium post partum sempre più lontano e stridente.
Dall’altra parte macchine
ed espedienti cinematografici ci avvicinano sempre più alle allucinazioni della
protagonista. Grazie agli effetti di dissolvenza vediamo i fantasmi che abitano
la sua carta da parati. Una sorta di gigantografia di tutti i suoi fantasmi.
Eppure questa illusione
allucinatoria viene subito, quasi clinicamente, smontata. Lo spettatore vede
queste figure oniriche apparire e magicamente dissolversi tra le pareti ma allo stesso tempo assiste alla costruzione
di questa illusione ottica.
L’esibizione di tutti questi
dispositivi, dell’intera “officina scenica” anche se inizialmente sembrerebbe
mirare a interrompere la sospensione dell’incredulità, finisce invece per
confondere talmente i piani di costruzione della scena da proiettare la platea
nell’intimità di Anna, nel suo presente dilatato e schizoide.
La regista inglese ancora
una volta sa dar volto alla femminilità nelle sue sfumature più fragili e
inattese e rende così perentoria la frase finale di Anna che si dichiara ormai
libera da qualsiasi prigionia.
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