Ordet (La Parola) di Kaj Munk, regia e adattamento di Arthur Nauzyciel,
con Pascal Greggory (in Borgen padre), Jean-Marie Winling ( in Peter il sarto), Catherine Vuillez (in Inger), Xavier Gallais (in Johannes), Frédéric Pierrot (in Mikkel Borgen), Marc Toupence (in Anders Borgen), Théâtre du Rond-Point, Parigi, 16 settembre- 10 ottobre 2009.
Con una scelta indiscutibilmente coraggiosa, il giovane regista Arthur Nauzyciel, direttore del Centre Dramatique National di Orléan-Loiret, ha recentemente proposto Ordet (La Parola) per il Festival d’Automne di Parigi. Lo spettacolo è una creazione; in Francia infatti il testo non è mai stato tradotto in scena da alcun regista prima di Nauzyciel, che lo propone per la prima volta al Festival d’Avignone 2008.
Ordet è un’opera teatrale scritta dal Kaj Munk nel 1925. Pastore luterano, Munk è anche uno dei più famosi drammaturghi danesi nel periodo compreso tra il 1930 e il 1950. Oggi l’autore sarebbe sconosciuto se non fosse per la fama che il film di Dreyer, girato nel 1955, ha dato alla sua pièce.
Non è per un caso se Munk ha abbandonato le nostre scene teatrali. Le sue pièces di inizio secolo non ci sono chiare, hanno un gusto antico, un ricordo troppo vivo di quella religione da sprovveduti di cui si nutrivano i nostri vecchi nei villaggi di montagna e o curvi a lavorare nelle campagne.
Come nella finzione teatrale, dal 1924 fino alla sua morte, Munk è il pastore di una piccola parrocchia di campagna a VedersØ. Un uomo strano, difficilmente comprensibile se si considera che in gioventù si fa addirittura difensore di Mussolini e di Hitler, perché vede nei loro progetti un principio altro. “La purezza di cuore è volere una cosa sola” diceva citando Kierkegaard per spiegare la sua ammirazione per i due folli dittatori. La storia toglie però velocemente il velo alla sua illusione, quando il giovane pastore assiste alle persecuzioni naziste contro gli ebrei e capisce di essersi imbattuto nel male. Diventa allora promotore di quella che lui chiamava la “ vera Resistenza” quella dello spirito. Nel gennaio 1944 viene arrestato dalla Gestapo. Qualche ora più tardi fu ucciso e abbandonato in un fosso , i tratti ormai irriconoscibili a causa del colpo di pistola tirato in viso.
Ordet è una delle sue prime opere teatrali, scritta in soli sei giorni durante l’estate del 1925. Particolarità della pièce è però che questo dramma realista mette in scena un miracolo, la resurrezione di Inge operata dal folle Johannes.
Tristemente il regista, Nauzyciel, scarta il carattere realistico del testo. Nella messa in scena teatrale tutto ciò che ricorda che il fatto miracoloso, riportato nel testo, avviene nel quotidiano, è scartato. Non si è più in uno spazio realistico, come nel poetico film di Dreyer, ma in uno spazio intimistico, a-temporale e a-spaziale. Non si fornisce neppure qualche elemento contingente, affinché lo spirito dello spettatore (e mi scusino i lettori dell’uso di questa parola quanto mai fuori moda) possa cedere alla tentazione di ricreare nella sua immaginazione il luogo e il momento particolare in cui il senso della storia decide di manifestarsi. Oggi sarebbe decisamente fuori luogo una tale versione dei fatti e il giovane regista decide, come tutti, per una spiritualità intimistica e individualistica, non reale, né riguardante il reale, che invece è terribilmente e insistentemente presente nel testo: il desiderio di potere dell’uno sugli altri, l’amore, la delusione del padre per i figli, la malattia e la morte... Si sceglie di eliminare tutto questo e di interrogarsi astrattamente su dio o su come sentirsi meno soli di fronte al male, in questo spazio senza tempo, quasi ci si trovasse in un’assemblea di morti che parlano della vita.
con Pascal Greggory (in Borgen padre), Jean-Marie Winling ( in Peter il sarto), Catherine Vuillez (in Inger), Xavier Gallais (in Johannes), Frédéric Pierrot (in Mikkel Borgen), Marc Toupence (in Anders Borgen), Théâtre du Rond-Point, Parigi, 16 settembre- 10 ottobre 2009.
Con una scelta indiscutibilmente coraggiosa, il giovane regista Arthur Nauzyciel, direttore del Centre Dramatique National di Orléan-Loiret, ha recentemente proposto Ordet (La Parola) per il Festival d’Automne di Parigi. Lo spettacolo è una creazione; in Francia infatti il testo non è mai stato tradotto in scena da alcun regista prima di Nauzyciel, che lo propone per la prima volta al Festival d’Avignone 2008.
Ordet è un’opera teatrale scritta dal Kaj Munk nel 1925. Pastore luterano, Munk è anche uno dei più famosi drammaturghi danesi nel periodo compreso tra il 1930 e il 1950. Oggi l’autore sarebbe sconosciuto se non fosse per la fama che il film di Dreyer, girato nel 1955, ha dato alla sua pièce.
Non è per un caso se Munk ha abbandonato le nostre scene teatrali. Le sue pièces di inizio secolo non ci sono chiare, hanno un gusto antico, un ricordo troppo vivo di quella religione da sprovveduti di cui si nutrivano i nostri vecchi nei villaggi di montagna e o curvi a lavorare nelle campagne.
Come nella finzione teatrale, dal 1924 fino alla sua morte, Munk è il pastore di una piccola parrocchia di campagna a VedersØ. Un uomo strano, difficilmente comprensibile se si considera che in gioventù si fa addirittura difensore di Mussolini e di Hitler, perché vede nei loro progetti un principio altro. “La purezza di cuore è volere una cosa sola” diceva citando Kierkegaard per spiegare la sua ammirazione per i due folli dittatori. La storia toglie però velocemente il velo alla sua illusione, quando il giovane pastore assiste alle persecuzioni naziste contro gli ebrei e capisce di essersi imbattuto nel male. Diventa allora promotore di quella che lui chiamava la “ vera Resistenza” quella dello spirito. Nel gennaio 1944 viene arrestato dalla Gestapo. Qualche ora più tardi fu ucciso e abbandonato in un fosso , i tratti ormai irriconoscibili a causa del colpo di pistola tirato in viso.
Ordet è una delle sue prime opere teatrali, scritta in soli sei giorni durante l’estate del 1925. Particolarità della pièce è però che questo dramma realista mette in scena un miracolo, la resurrezione di Inge operata dal folle Johannes.
Tristemente il regista, Nauzyciel, scarta il carattere realistico del testo. Nella messa in scena teatrale tutto ciò che ricorda che il fatto miracoloso, riportato nel testo, avviene nel quotidiano, è scartato. Non si è più in uno spazio realistico, come nel poetico film di Dreyer, ma in uno spazio intimistico, a-temporale e a-spaziale. Non si fornisce neppure qualche elemento contingente, affinché lo spirito dello spettatore (e mi scusino i lettori dell’uso di questa parola quanto mai fuori moda) possa cedere alla tentazione di ricreare nella sua immaginazione il luogo e il momento particolare in cui il senso della storia decide di manifestarsi. Oggi sarebbe decisamente fuori luogo una tale versione dei fatti e il giovane regista decide, come tutti, per una spiritualità intimistica e individualistica, non reale, né riguardante il reale, che invece è terribilmente e insistentemente presente nel testo: il desiderio di potere dell’uno sugli altri, l’amore, la delusione del padre per i figli, la malattia e la morte... Si sceglie di eliminare tutto questo e di interrogarsi astrattamente su dio o su come sentirsi meno soli di fronte al male, in questo spazio senza tempo, quasi ci si trovasse in un’assemblea di morti che parlano della vita.
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