sabato 13 marzo 2010

László Moholy-Nagy

"Design is not a profession but an attitude... Thinking in complex relationships".

La poliedrica figura di Laszlò Moholy-Nagy, che spazia dalla pittura all'architettura, dalla scenografia alla fotografia  ed al cinema, dalla sperimentazione in ogni campo espressivo ad un forte e lucido impegno nel campo dell'educazione all'arte, è compendiata nella sua attività di teorico alla costante ricerca di una nuova defini­zione sociale del ruolo dell'artista in un mondo ed in un tempo caratterizzati dall'egemonia degli apparati tecnico-industriali e dalla conseguente trasformazione di tutta la rete delle relazioni socioculturali (1).
Moholy-Nagy - che, non va dimenticato, fu anche direttore del nuovo Bauhaus quando questo venne trasferito a Chicago nel 1937 - è infatti fra i primi a capire che nel processo storico di trapasso dal lavoro artigianale a quello industriale è certamente implicata anche l'arte sia nella sua funzione che nei suoi valori e che questa trasformazione richiede che l'artista sia capace di instaurare un'intesa, un rapporto organico con la struttura produttiva (il che significa, in chiave marxiana, con la Storia), che implica per un verso la conoscenza delle tecniche moderne, dall'altro la consapevolezza che la produzione artistica non può più avvenire ad un livello semplicemente manuale-fabrile, ma richiede bensì un potente apporto ideativo-progettuale che subordina il suo compimento estetico alla messa in esercizio di quelle tecniche moderne di cui l’artista-progettatore deve saper disporre.
A ben vedere dunque, la ricerca di questo rapporto organico precede necessar­iamente da una mimesi formale-concettuale del modello tecnologico e proprio in quest'ottica si presta ad essere letta anche come una riproposizione di quel principio di imitazio­ne che se nell'estetica settecentesca fondava il nesso arte/natu­ra, a partire dall'Ottocento  si muove verso un nuovo ambito di inerenze, quello fra arte e società, nel quadro del quale esso andrà incontro ad un graduale ma inesorabile dissolvimento del proprio carattere puramente estetico proprio sull'onda dell'avven­to della tecnica e dei mutamenti culturali ivi derivanti anche nel campo dell'arte.
La tendenza contemporanea dell'estetica ad essere assorbita da altre forme di sapere ha peraltro un suo attivissimo rappresentan­te proprio in Moholy-Nagy, nel cui progetto teorico l'arte si va trasformando da "mistero romantico" in "chiarezza storica", il che significa da un lato capacità di equiparare se stessa ai processi storici in atto, dall'altra necessità di ricondurre la consapevo­lezza artistica agli ambiti strutturali di tali processi. È indubbiamente nell'ambito di questa seconda istanza che si va a configurare lo spazio per formulare una nuova estetica.
Le premesse artistiche di questo progetto discendono indubbia­mente dalle esperienze costruttiviste e del Bauhaus, polarizzate come si è visto intorno all'esigenza di superare il tradizionale sistema delle arti per un'integrazione fra pratica artistica tout court e mondo della tecnica (che equivale ad un altro modo per riproporre l'istanza del riaccostamento dell'arte con la realtà concreta. Moholy-Nagy è del resto molto lucido su questo punto: egli parla di un'arte che rompendo con la visione indi­vidualistico-romantica che la pone come espressione di "esperienze psichiche soggettive", si proponga come "progettazione" di modelli estetici in sintonia con la nuove realtà tecniche e sociali della società industriale moderna, fra le quali spicca la dimensione di "massa", che egli, come già Benjamin, continua a pensare ancora suscettibile di potenzialità rivoluzionaria proprio in virtù dell'apporto tecnologico: la rivoluzione tecnologica, che estende le facoltà umane (tema già presente in Henri Bergson e ripreso successi­vamente con ragguardevoli sviluppi teorici da Marshall McLuha(2)) rigenera le capacità creative e si pone quindi anche come rivoluzione estetica che nei suoi portati formativi ed acculturanti emancipa le masse. Per questo, secondo Moholy-Nagy, essa va intesa anche come rivoluzione politica. Non è chi non veda in questa imposta­zione una debolezza intrinseca per la sua sostanziale inavverti­tezza dei rischi di "gleichschaltung", oltre che delle potenziali­tà liberatorie, della società di massa, rischi che filosofi come Adorno, Horkheimer e Marcuse individueranno acutamente proprio entrando in contatto con la complessità della realtà americana, che pro­prio della società di massa esprime il primo e forse più autentico modello. Ma a parte questo aspetto di specifica perti­nenza sociologica, il progetto artistico di Moholy-Nagy rimane tuttavia assai significativo e non solo per il suo generoso sforzo di rinnovamento dei valori estetici, ma, assai più in particolare, per la rigorosa e puntuale analisi della facoltà della visione che egli compie in stretta correlazione con l'esame della struttura di nuovi media ottici quali la fotografia ed il cinema, che di quella facoltà costituiscono l'ideale estensione tecnica. Il fondamento teorico di questa duplice analisi è, al solito, estremamente semplice: l'arte ha il compito di introdurre fra l'uomo e l'ambiente nuovi rapporti funzionali (percettivi, immaginativi, sociali), soggettive (agendo come una sorta di "inconscio ottico" secondo la posteriore definizione di Benjamin); per un altro, la proiezione della luce direttamente sulla lastra sensibi­le può fornire il mezzo per una sorta di scrittura sperimentale non-segnica capace di realizzare un astrattismo tecnologico che porta a compimento  talune analoghe esperienze d'avanguardia effettuate proprio in questa direzione da Man Ray, Viking Eggeling ed El Lissitsky.  Quest’arte deve insomma produrre nuovi rapporti e non riprodurre specularmente quelli già esistenti. Questa distinzione fra produzione e riproduzione è essenziale per capire l’uni­verso estetico-creativo in cui Moholy-Nagy colloca l'azione dei nuovi media ottici, il cui linguaggio consta di due elementi essenziali:  la cinetica delle forme  e l'impiego della luce come mezzo espressivo. Si va così chiarendo quale sia lo specifico operativo che egli assegna ai media ottici: non un processo di riproduzione naturale secondo la meccanica della  camera oscura, ma, ed in misura ben più sperimentale, "la sensibilità alla luce di una superficie trattata chimicamente"(3) e quindi un fatto puramente tecnico che tuttavia viene caricato di un esplicito significato estetico: la liberazione dell'espressivi­tà figurativa dalle modalità prospettico-realistiche. In questa prospettiva i media ottici si aprono a metodi ed impieghi dispara­ti: per un verso essi, perfezionando le facoltà visive dell'uomo, possono consentire un tipo di visione completamente depurata da sovrastrutture.
Nel suo complesso teorico-operativo, dunque, l'esperienza arti­stica di Moholy-Nagy nel campo dei media ottici costituisce, accanto alla concomitante e non certo casuale attività di pittore, un'intensa e conseguente ricerca tesa ad approfondire la natura e le possibilità di una nuova visualità, che trova nella tecnologia dell'immagine i suoi strumenti privilegiati ed il suo universo creativo di riferimento.

(1) G.C. Argan, in G. Rondolino, Laszlo Moholy-Nagy: Pittura Fotografia Film, Torino, Martano, 1975.
(2) M. McLuhan, Dall'occhio all'orecchio, Roma, Armando, 1982.
(3) L. Moholy Nagy, Pittura Fotografia Film, Torino, Einaudi, 1987.



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