venerdì 9 settembre 2011

IL VILLAGGIO DI CARTONE - Olmi a Venezia

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Presentato fuori concorso alla 68° Mostra del cinema di Venezia, Il villaggio di cartone è l'ultima opera di Ermanno Olmi, e forse il suo testamento cinematografico, tanto è la forza e la determinazione con cui sono espressi, ma viene da dire "urlati" i temi canonici della poetica del regista bergamasco, già autore di Centochiodi o la Palma d'oro a Cannes nel 1978 L'albero degli zoccoli.
La pellicola racconta di un parroco di una chiesa dismessa, dalla quale nelle scene iniziali vengono prelevati tutti gli oggetti sacri, il crocefisso, il tabernacolo, i quadri, le luminarie. Il prete è duramente messo alla prova da questo momento difficile, e l'arrivo di un gruppo di rifugiati clandestini africani che si accampa nell'edificio per sfuggire alle retate delle forze dell'ordine sarà occasione per un bilancio della sua vita e la confessione delle sue debolezze.
Girato in un unico luogo, con chiara impostazione teatrale nella gestione degli spazi, nell'illuminazione degli ambienti e nella recitazione degli attori, tra cui moltissimi non protagonisti, come è tradizione per il regista, il film presenta delle scene di grande suggestione. Un esempio molto importante è la lunga scena iniziale della spoliazione della chiesa, che sembra davvero una violenza compiuta contro un corpo inerme, che non può difendersi: attraverso un sapiente uso del montaggio e con delle luci nette e ben indirizzate, nonché con le musiche sacre di Sofia Gubaidulina, Olmi trasmette tutta la tristezza e lo sconforto del prete.
Impostato poi come una serie di dialoghi teatraleggianti, i temi del film emergono con una prepotenza e una serietà che lasciano intendere quanto stiano a cuore all'autore, rendendo forse la pellicola il suo testamento. L'appello per un ritorno al cristianesimo delle origini, di povertà, amore per gli umili e i poveri si incrocia con il tormento del protagonista riguardo al silenzio di Dio e alla necessità della fede per realizzare il Bene nel mondo dell'uomo. Il dialogo tra l'uomo di fede e il medico non è allora tanto il classico scontro tra ateismo-ragione e religiosità-fede ma un dibattito interno a ogni anima, impossibilitata a sapere se ha scelto la strada giusta per la propria vita.
Similmente a Terraferma il tema dell'accoglienza degli immigrati clandestini esula dal contesto politico ma è diretta emanazione di uno sdegno e di una giusta ribellione contro un'umanità che sembra aver perso la propria ragion d'essere.

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