“Lui è il Leoardo della situazione, lui deve dare i tocchi, la struttura (...) quelli che gli sono vicini, i bravi artigiani, devono fare il resto. Ha saputo quindi trasformare e trasportare la funzione un po’ pittorica del Rinascimento in musica del ‘900”. Quello così resogli da Roberto Vecchioni, è il miglior omaggio possibile a Fabrizio De André, tra le figure di maggiore rilievo nella scena canora italiana. Nato da famiglia benestante, sin da giovanissimo si ribella ai propri privilegi: a 18 anni scappa di casa e, per qualche tempo, va a vivere nei carrugi della città vecchia, a contatto con quell’umanità toccante e reietta che poi metterà al centro di tante sue composizioni. L’interesse per la scrittura di canzoni s’impone nella prima metà degli anni ‘60, prendendo forma in brani che si chiaman “La guerra di Piero”, “La ballata del Michè”, “Amore che vieni amore che vai”, “La ballata dell’amore cieco”, “La ballata dell’eroe”: nel ‘66, essi vengono raccolti in un LP, “Tutto Fabrizio De André”. Nel disco c’è pure “La canzone di Marinella” che, portata al successo da Mina, dà a Fabrizio l’indipendenza economica e la possibilità di dedicarsi, a tempo pieno, alla propria attività. Nasce, così, “Volume I” (1967), con i futuri classici “Via del Campo”, “Bocca di rosa” e “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” (quest’ultima firmata assieme all’amico Paolo Villaggio); “Tutti morimmo a stento” (1968), uno dei primi concept album usciti da noi; “Volume III” (1968), con la provocatoria “Il testamento” ed un adattamento da Georges Brassens, “Il gorilla”; “Nuvole barocche” (1969), dove compare uno dei suoi pezzi più intensi di sempre, l’amara “Canzone dell’amore perduto”. La formula del 33 giri a tema viene ripresa per “La buona novella” (1970, ove la figura del Cristo diviene quella di un rivoluzionario), che si chiude con la superlativa “Il testamento di Tito”, composta sulla melodia di “Blowin’ in the wind” di Dylan. Esiti ancora più alti quelli di “Non al denaro non all’amore né al cielo” (1971), ispirata alla “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters reinventando in toto le poesie scelte. Una battuta d’arresto la segna “Storia di un impiegato” (1973), un po’ fuori dal mondo dell’artista, forse perché troppo direttamente politicizzato (“La canzone del Maggio”, che prende spunto dal ‘68 francese). Gli anni ‘70 vedono il nostro attraversare una fase di transizione: pure se son valide le versioni di Cohen (“Suzanne”, “Giovanna D’Arco”), Dylan (“Via della povertà”) e Brassens (“Delitto di paese”) contenute in “Canzoni” (1974; vi collabora un giovane Francesco De Gregori), “Volume 8” (1975) staziona però fra manierismo e ritualità, malgrado vi compaiano “Amico fragile” e “La cattiva strada”. E’ solo con “Rimini” (1978) che l’artista genovese ritrova la forma migliore: di seguito, egli s’imbarca in una fortunata tournée con la PFM, dalla quale vengono tratti due live (1979-80). In seguito, “Fabrizio De André” (1981, noto pure come “indiano” per la sua copertina) è, magari sottovalutato, tra le cose sue più alte, inno sia al popolo sardo sia a quello dei nativi americani. Di qui in avanti, la produzione di De André diventa più sporadica, ma gli esiti si fanno mirabili: “Creuza de mä” (1984), eseguito in “lingua genovese”, è un riconosciuto capo d’opera (“dobbiamo essere riconoscenti a Fabrizio De André per il fatto che un poeta del suo livello abbia scelto la ‘pop music’ come mezzo d’espressione”, dichiara un guru della musica d’autore come David Byrne); “Le nuvole” (1990), realizzato come il precedente con Mauro Pagani, trova i propri atout ne “La domenica delle salme” ed in “Don Raffae’”; a conclusione, “Anime salve” (1996) è lavoro testamentario ed al tempo medesimo tutto calato nel presente, osservato con occhi disillusi e dolenti (si veda la title track; e la magia di “Ho visto Nina volare”, l’incanto di “Smisurata preghiera”, la cruda tenerezza di “Princesa”). In mezzo, ancora molte altre cose. Ad esempio, un doppio dal vivo (“Concerti”, 1991), tra i rari della sua carriera, basato principalmente su “Le nuvole”, ma che si spinge fino ad interessanti recuperi dal passato remoto (“La canzone di Marinella”, “Il testamento di Tito”, “Il gorilla”). Un romanzo, scritto a quattro mani con Alessandro Gennari, “Un destino ridicolo” (Einaudi), storia di un furto organizzato da un trio di ladri improbabili. E poi tanti, tanti concerti, quasi a voler emendarsi della sua proverbiale ritrosia: sino all’agosto del 1998, quando un malore l’obbliga a fermarsi. Di lì a poco, fra il 10 e l’11 gennaio 1999, la morte.
via Italica
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