Arte e tecnica
Tra il 1923 e il 1924 si verificano una serie di cambiamenti importanti all’interno della scuola: Itten, troppo concentrato sull’estetica, viene licenziato ed insorge il problema dell’insegnamento di architettura. Secondo l’idea con il quale il Bauhaus era nato, l’architettura doveva essere l’obiettivo ultimo, la conquista da raggiungere dopo un lungo apprendistato, da realizzare solo dopo la compiuta rivoluzione dello spirito. Ma nel 1923 questo stato di cose comincia a cambiare: arrivano nuovi maestri, Moholy-Nagy ed Albers, e la preminenza del lavoro pratico su quello puramente teorico determina l’affievolirsi dell’aspetto utopico nella produzione della scuola. I laboratori iniziano a produrre veri prototipi per l’industria, che significa fare uscire il Bauhaus dalla fase della produzione artigianale ed avviarla sulla strada della produzione di prototipi destinati alla fabbricazione in serie. “Arte e tecnica: una nuova unità”(1). Avvenimento centrale nella storia del Bauhuas a Weimar è l’esposizione del 1923, in connessione con la “settimana del Bauhaus”. L’esposizione segna la conclusione definitiva della fase “espressionistica” e costituisce una svolta decisiva: la scuola si sforza di presentarsi come un’entità produttiva, in grado di realizzare quella sintesi dell’arte che si era prefissata sin dall’inizio della sua fondazione(2). La mostra, sebbene sia giudicata da molti affrettata, offre, nei prodotti delle varie officine, una certa maturità:
“…Non potranno sfuggire a nessuno l’estrema serietà con cui è stato affrontato il problema fondamentale dei legami tra artigianato, arte e tecnica. […] Dovunque si avverte una solida preparazione artigianale.
Il fatto che proprio le giovani forze del Bauhaus si siano rivolte a un più intenso confronto con l’oggettività non è casuale. Questo nuovo orientamento presenta punti di contatto con correnti percepibili ovunque in Europa”(3). Una tale svolta nella scuola è certamente dovuta all’influenza esercitata dal neoplasticismo olandese e dal costruttivismo russo. La vicinanza di Theo van Doesburg, editore della rivista De Stijl e capo del gruppo di artisti omonimo, aveva contribuito a questo cambio di rotta della scuola: l’ideale neoplastico mirava ad eliminare gli uomini dal soggettivismo (visto come il responsabile delle guerre e del caos nel mondo), attraverso “il rimpiazzo della sintesi sull’analisi, della costruzione logica sul lirismo, della macchina sull’artigianato, del collettivismo sull’individualismo”(4).
El Lissitzky era un punto di riferimento importante per Mohloy-Nagy mentre Tatlin era considerato il più grande architetto russo e, in Germania, Dada gli aveva dedicato nel 1920, un manifesto:
«Die kunst ist tot, es lebe die neue maschinenkunst Tatlins» (5).
Il pensiero costruttivista si propone di “collegare l’arte al lavoro, il lavoro alla produzione e la produzione alla vita quotidiana”(6). Tutto ciò si accorda bene con il nuovo scopo della scuola: “créer des prototypes pour les objets de la vie quotidienne est une nécessitè d’ordre social”(7). L’ideale “arte e tecnica” diventa il nuovo obiettivo dell’istituto, alla cui realizzazione danno i massimi contributi Moholy-Nagy e Albers. La meccanizzazione viene vista in modo diverso: è vero che l’uomo moderno è stato dilaniato, ma abbandonare la divisione del lavoro non è né possibile né auspicabile, piuttosto va subordinata all’utilità.
“La Bauhaus si propose di evitare l’asservimento del genere umano alla macchina, dando ai suoi prodotti un contenuto di realtà e un significato per salvare così la patria da un macchinismo anarchico… Il nostro obiettivo fu di eliminare ogni svantaggio della macchinizzazione senza sacrificare neppur uno dei suoi vantaggi”(8). È ormai necessaria una filosofia di franca modernità che abbandoni il timore nella meccanizzazione: la tragedia della disintegrazione dell’uomo non è avvenuta a opera delle macchine o della minuziosa suddivisione dei compiti, ma della “mentalità materialista dominante e dell’illusoria articolazione dell’individuo alla comunità”(9).
“Il mondo va affrontato e dominato e la cura dei mali della modernità sta in un grado maggiore, e nella forma giusta, di modernità”(10).
1 Ideale auspicato da Gropius nel 1923 in occasione della settimana del Bauhaus, H. M. WINGLER, Il Bauhaus. Weimar Dessau Berlino 1919- 1933, (1962), trad. it., Feltrinelli, Milano 1972. p. 27
2 F. DAL CO, in H. M. WINGLER, Il Bauhaus. Weimar Dessau Berlino 1919- 1933, (1962), trad. it., Feltrinelli, Milano 1972. pp.10-11
3 W. PASSARGE, L’esposizione del Bauhuas statale a Weimar, “Das Kunstblatt”, 1923; in H. M. WINGLER, Il Bauhaus. Weimar Dessau Berlino 1919- 1933, (1962), trad. it., Feltrinelli, Milano 1972. pp. 124-126
4 L.GROTE, in Bauhaus 1919-1969, catalogo della mostra, Musée National d’Art Moderne, Musée National d’Art Moderne de la ville de Paris, 1969. p.20
5 G. LISTA (a cura di), Dada, l’arte della negazione, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1994; p.87.
6 TARABOUKINE, Du chavalet à la machine (1923), in D. RIOUT, L’arte del ventesimo secolo, Torino, Eiunaudi, 2002. p.54
7 W.GROPIUS, Neue Arbeiten der Bauhaus Werkstätten, “Bauhausbucher”, n. 7, in Bauhaus 1919-1969, catalogo della mostra, Musée National d’Art Moderne, Musée National d’Art Moderne de la ville de Paris, 1969. p.20
8 W. GROPIUS, The New Architecture and the Bauhaus, 1965, in P. GAY, La cultura di Weimar (1968), trad. it., Dedalo, Bari, 2002. p.156
9 Ibidem
10 P. GAY, La cultura di Weimar (1968), trad. it., Dedalo, Bari, 2002. p. 157
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