giovedì 12 marzo 2020

La Compagnia, Takayoshi Shibata (2019)



È attraverso lo svolgersi del tempo, così come è grazie ad alcuni incontri inaspettati che ci rendiamo conto dell’azione continua, dentro la realtà, di un qualcosa o meglio di un qualcuno. Se notiamo infatti cambiamenti prevedibili e regolari, veniamo però poi sopresi da imprevedibili mutamenti e la quiete e il silenzio che nascono in noi ci permettono di guardare in modo nuovo, con attenzione e stupore, quel che succede davanti ai nostri occhi e nella nostra vita. Nel trittico “La Compagnia”, Takayoshi Shibata ci presenta una città medievale, con le sue case, la chiesa, e quel campanile che già da lontano può essere intravisto da chi è in cammino verso la città, una città il cui volto, carico d’espressività, reso quasi un palcoscenico, segnala i percorsi quotidiani di coloro che ne hanno costruito le case e anche quel consolante campanile. L’uso dei pannelli indica che solo uno sguardo dall’alto può dare unità agli istanti e agli spazi, istanti e spazi carichi ciascuno di un significato proprio. E così, con quelle sue pennellate orizzontali, l’atmosfera si impadronisce della nostra vista, quasi a porre in evidenza l’apparente immobilità degli edifici, mentre le nuvole viaggiano in un cielo verdeggiante, un cielo che risulta essere la scoperta più importante, perché puro riflesso della voluttuosità della collina e degli alberi che attraversano la città, e così il cielo, in quel suo verdeggiare, si fa nostra compagnia, diventa solida accoglienza, vicinanza davvero prossima. Perché è solo nell’insieme che si comprende il valore di ogni singola cosa, dato che ogni cosa trova in esso il suo posto. Takayoshi Shibata ci regala un ritratto non ideologico dell’armonia, e ci dona una città nella quale è possibile condividere la normalità della vita, una città che si fa armonia perché ciò che in essa possiedo, la mia casa, il mio spazio, l’aria che respiro non sono più soltanto un mio possesso ma sono diventati un dono, proprio perché posso metterli in comune con gli altri. 
Carlos Ciade (Messico) 
Da The Others, February 2020

Takayoshi Shibata nasce nel 1953 a Nagoya, Giappone. Nel 1976 si laurea presso l'Università di Belle Arti di Nagoya. Nel 1978 si trasferisce in Italia e si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Brera, dove si laurea nel 1982. Dal 1984 è impegnato in una scuola privata di Belle Arti e continua il lavoro di pittore.

giovedì 5 marzo 2020

Aichi Prefectural University of Fine Arts and Music, Junzo Yoshimura


Un edificio non si può esporre in un museo, e questo fa dell'architettura un arte (ma un'arte più simile a quella di creare un bel vaso più che a quella di creare un bel quadro) che da immagini sui libri o su internet non si capisce del tutto.
Per cui, perdonateci, ma questo articolo sarà per forza incompleto.

Il campus della Aichi Prefectural University of Fine Arts and Music è stato progettato completamente dallo studio di Junzo Yoshimura, con un grande aiuto di Akio Okumura, nel 1966-70. La prima cosa che viene in mente guardandolo, è che è fatto per il posto in cui è, e per la funzione che ha, come un abito su misura. 


Sorge su una collina che divide due valli, circondata da boschi. Un terreno difficile; ci si potrebbe immaginare che per spostarci fra una classe e l'altra si debbano affrontare salite, curve eccetera. Invece, tutto è parallelo, tutto è piano, o quasi. Allora, è stata cambiata da cima a fondo la topografia del terreno?
No. Se guardiamo la mappa topografica del sito prima e dopo la costruzione, le linee altimetriche (quelle linee che segnano l'altitudine di un terreno), praticamente sono inalterate. 
Yoshimura ha adottato la tecnica dell'accontentarsi. Ha trovato, sulla mappa, la zona relativamente più pianeggiante, che risulta essere quella che corre sulla cresta fra le due valli, si allarga a destra e a sinistra ma è schiacciata dalla collina che incombe dietro.

Il campus originario è quello che comincia dal piazzale del parcheggio; gli edifici in primo piano sono aggiunte posteriori.

Stralcio della pianta
Okumura chiama questa tecnica il trovare "lo spazio dell'intervallo" (間の空間, ma no kūkan). La parola ma esprime molti significati diversi, anche in questo stesso progetto. Per quanto riguarda la decisione di dove posizionare gli edifici, ma no kūkan significa trovare il giusto punto fra le varie altezze del terreno. 

E siccome ogni edificio ha un suo posto particolare in questo equilibrio fra colline e valli, ogni edificio è completamente diverso. Per esempio, sulla cresta fra le due valli sorge l'edificio delle aule, asso centrale della composizione.


Questo è sorretto da pilotis che lasciano che lo sguardo abbia sempre come orizzonte il verde e le colline, perchè mettere un muro fra due valli è creare due territori diversi. Qui, ma no kūkan significa essere coscienti di essere fra due spazi diversi.
Questo edificio è un invenzione geniale. In Giappone, l'architettura delle scuole è importantissima, e si è venuta a solidificare una tipologia da cui, per economia e anche per tradizione, è difficile scostarsi. Questa vuole aule a sud, e il corridoio a nord. 
Ma qui, il terreno è quel che è; Yoshimura si accontenta, abbiamo detto. Non c'è esposizione a sud, ma a est e a ovest. Se si mette il corridoio a est, le classi non hanno luce al mattino, e se si mette a ovest, non hanno luce il pomeriggio.
Ecco quindi il primo edificio in cui il corridoio è sotto le aule, e in cui tutte le aule hanno finestre ininterrotte su entrambi i lati, da cui passa la brezza d'estate e la luce tutto il giorno. E grazie ai pilotis, questo edificio è anche la strada principale del campus.



Un'altro edificio su misura è l'auditorium (questa università ha due facoltà: quella di belle arti e quella di musica). Qui l'elemento principale è il tetto, una unica lastra di cemento spiegazzata che forma la cassa sonora, si bilancia su dei pilastrini e di nuovo si impenna per coprire l'ingresso.

 

Poi l'edificio per le esercitazioni personali di musica; la biblioteca; la sala espositiva delle sculture degli allievi; gli atelier. Ognuno con una forma diversa, ognuno con il suo suono, come strumenti musicali. Lo disse lo stesso Yoshimura che vide in sogno danzare e posarsi al proprio posto ogni edificio, come uno strumento musicale che si accordava al proprio ruolo nell'orchestra.

Gli atelier sono posti dove si produce, e in questa università sembrano davvero delle fabbriche. Lucernari a shed, per avere le pareti libere e una luce morbida, da scultore; pavimento in mattoni pronto a sporcarsi (e infatti in tutto il complesso degli atelier non c'è un centimetro libero dalle macchie di pittura). E il sito, che è l'unico ad essere in discesa, fa si che questi atelier siano adagiati come a gradoni, con un corridoio che forma visuali sempre nuove, con punti bui e improvvise piogge di luce, e scorci su artisti indaffarati.


Quindi, per la forma degli edifici, ancora Yoshimura ricorre al concetto di ma no kūkan. In questo caso, significa "forma fra il contesto e la funzione".

Ciò che non si può descrivere di questo campus è l'aria di rovina moderna che c'è, nell'invecchiare del cemento e del legno, nel romanticismo dei giovani artisti e nella foresta che pian piano si rimangia il costruito.
Andandoci, viene in mente Villa Adriana. Non solo perché è un'armonia di forme disposte sulla natura senza cambiarla, ma soprattutto perché i futuri architetti-archeologi lo visiteranno e lo copieranno spudoratamente, come una rovina romana.