giovedì 30 agosto 2012

La Morte della Pizia (parte settima)





avanti agli occhi chiusi della Pizia, che immersa in vapori assai più fitti di prima si dondolava ritmicamente, si stagliò ora un uomo dalla figura altera e indubitabilmente regale, anche se biondo, azzimato , stanco e accidioso. Pannychis seppe subito che si trattava di Laio. Com’è ovvio il monarca si era stupito assai quando Tiresia gli aveva riferito l’oracolo di Apolli secondo il quale se mai Giocasta gli avesse generato un figlio, questi lo avrebbe assassinato. Laio, fra l’altro, conosceva Tiresia, i prezzi dei suoi oracoli erano vergognosi, solo i ricchi potevano permettersi un Teresia, la gente normale era costretta a recarsi a Delfi di persona per consultare la Pizia, ciò che certo non dava le stesse garanzie; infatti, così credeva la gente, quando era Tiresia a interrogare la Pizia, la chiaroveggenza di lui si trasmetteva a lei; tutte sciocchezze, naturalmente, Laio, che era un despota illuminato, sapeva che l’unico vero problema era di appurare chi, corrompendo Tiresia, poteva averlo indotto a far pronunciare un oracolo tanto perfido. Certo qualcuno interessato a che loro, lui e Giocasta, non facessero figli; o Meneceo o Creonte, dunque, poiché uno di loro due, se il suo matrimonio con Giocasta fosse rimasto sterile, avrebbe ereditato il trono. Ma Creonte, nella sua indefettibile ottusità, era un uomo estremamente fedele e di un dilettantismo politico a dir poco clamoroso. Non restava dunque che Meneceo. Quello già di sicuro si vedeva nelle vesti del padre di un re, certo che, per Zeus, doveva aver spillato dalle casse dello Stato una barca di quattrini, i prezzi di Tiresia superavano di molto il patrimonio su cui Meneceo pagava le imposte. Ebbene, essendo l’uomo drago suo suocero, non era il caso di preoccuparsi delle sue attività cospirative, ma certo che sprecare una somma così enorme per un oracolo che si poteva ottenere per pochi spiccioli… Per fortuna, come a Tebe ogni anno, una piccola pestilenza serpeggiava intorno alla roccia di Cadmo e già aveva ghermito alcune dozzine di persone, perlopiù gente di poco conto, filosofi, rapsodi e altri poetastri. Laio mandò a Delfi il suo segretario con diverse proposte e dieci monete d’oro: in cambio di dieci talenti si otteneva dal gran sacerdote qualsiasi cosa; già undici talenti avrebbero dovuto registrarli nei libri contabili del santuario. L’oracolo che il segretario riportò da Delfi fu che la peste, la quale nel frattempo si era un poco attenuata, sarebbe cessata del tutto solo se uno degli uomini drago si fosse sacrificato per il bene della città. Il che significava che la peste era pronta a divampare di nuovo con grande violenza. L’oste Peloro disse allora vivacemente che l’uomo drago di nome Peloro non era affatto un suo antenato, qualcuno per fargli del male aveva diffuso quella voce falsa e tendenziosa. Meneceo, quindi, come unico sopravvissuto della stirpe degli uomini drago, dovette per forza salire sulle mura della città e di lì gettarsi di sotto; ma invero Meneceo fu felicissimo di potersi sacrificare per il bene della città, l’incontro con Tiresia lo aveva finanziariamente rovinato: era insolvente, gli operai mugugnavano, il fornitore di marmo Kapys aveva da tempo sospeso le consegne, la fabbrica di laterizi pure, la parte orientale delle mura della città non era altro che uno scheletro in legno, la statua di Cadmo nella Piazza del Consiglio era fatta di gess, di bronzo non aveva che il colore, e al primo acquazzone Meneceo si sarebbe comunque dovuto suicidare. Come una rondine gigantesca caduta in deliquio, precipitò dalla parte sud delle mura, e mentre echeggiavano nel sottofondo i canti solenni delle damigelle d’onore, Laio strinse la mano di Giocasta, e Creonte fece il saluto militare. Ma quando Giocasta partorì Edipo, Laio sbigottì. Naturalmente non credeva all’oracolo, era assurdo pensare che suo figlio lo avrebbe assassinato, ma insomma, per Hermes, avesse almeno saputo se Edipo era davvero suo figlio, certo, non poteva negare che qualcosa lo aveva sempre trattenuto dal dormire con sua moglie, il loro era comunque un matrimonio di convenienza, lui aveva sposato Giocasta per avvicinarsi alla gente del popolo, visto che, per Hermes, dati i suoi trascorsi prematrimoniali Giocasta la conoscevano tutti, c’era mezza città che si sentiva solidale con Laio; forse era pure superstizione ciò che lo teneva lontano dal letto di Giocasta, ma l’idea che suo figlio potesse assassinarlo era in qualche modo poco incoraggiante e, a dire il vero, a Laio le donne non piacevano, preferiva di gran lunga le giovani reclute, ma di tanto in tanto, quando era proprio sbronzo, con sua moglie doveva pur averci dormito, Giocasta assicurava di sì, e lui, veramente, non sapeva più bene, c’era fra l’altro quel maledettissimo ufficiale della guardia…insomma, la cosa migliore era esporre il marmocchio che tutt’a un tratto vide giacere in una culla.
La Pizia si strinse nel mantello, di colpo i vapori si fecero di ghiaccio e lei ebbe freddo, e mentre era lì che gelava vide di nuovo davanti a sé il viso incrostato di sangue del cencioso mendicante, il sangue colò via dalle orbite e due occhi azzurri la guardarono in faccia: era un viso aspro, lacerato, che niente aveva di greco, il viso di un ragazzo, lo stesso del giorno lontano in cui lei, Pannychis, si era beffata di Edipo pronunciando un oracolo escogitato lì per lì di sana pianta. Che razza di imbroglione è mai questo, pensò ora Pannychis, è chiaro che già a quell’epoca sapeva benissimo di non essere figlio di Polibo e Merope, il re e la regina di Corinto!
“Sicuro,” rispose il giovane Edipo attraverso i vapori che sempre più fitti avvolgevano la Pizia “l’ho sempre saputo. A raccontarmelo furono le serve e gli schiavi, e anche il pastore che trovò me, neonato inerme, sul monte Citerone, con i piedi trafitti da uno spillo e legati per le caviglie. L’ho sempre saputo di essere stato consegnato così a Polibo, il re di Corinto. Polibo e Merope sono sempre stati buoni con me, questo devo ammetterlo, ma non sono mai stati veramente sinceri, temevano di dirmi la verità perché tale era il loro desiderio di avere un figlio che preferivano immaginare in qualche modo di averlo davvero, e io allora sono venuto a Delfi. Apollo era l’unica istanza alla quale mi potevo rivolgere. Ti assicuro, Pannychis, io credo in Apollo, continuo tutt’ora a credere in lui, non avevo certo bisogno che Tiresia mediasse tra noi, , eppure non venni a consultare l’oracolo di Apollo con una vera e propria domanda, sapevo benissimo che Polibo non era mio padre; venni da Apollo con l’intento di stanarlo, e in effetti lo stanai dal suo divino nascondiglio; ebbene, l’oracolo tonante che per bocca tua ricevetti dal dio fu veramente atroce, come sempre in effetti la verità è atroce, e atrocemente infatti quell’oracolo si è compiuto. Allora, quando ti lasciai, pensai tra me e me che se Polibo e Merope non erano i miei genitori, dovevano esserlo le persone in relazione alle quali l’oracolo si sarebbe avverato. E quando a un crocevia uccisi un vecchio irascibile e vanaglorioso seppi, ancora prima di averlo ucciso, che si trattava di mio padre, chi altri avrei potuto uccidere se non lui… in realtà un altro uomo l’ho ucciso, ma fu più tardi, un tipo insignificante, un ufficiale della guardia di cui ho scordato perfino il nome”.

UPCOMING BOOK FAIRS


©Ed Ruscha
MISS READ, September 14-16, 2012, Berlin
OFFPRINT AMSTERDAM, September 20-23, 2012, Amsterdam
THE TOKYO ART BOOK FAIR, September 21-23, 2012, Tokyo
THE LONDON ART BOOK FAIR, September 21-23, 2012, London
ZINE*FAIR, September 22-23, 2012, Vienna
THE NY ART BOOK FAIR, September 28-30, 2012, New York
VANCOUVER ART/BOOK FAIR, October 6-7, 2012, Vancouver
SALON LIGHT #9, October 19-21, 2012, Paris
OFFPRINT PARIS, November 15-18, 2012, Paris

Beautiful Evidence: New Illustrations Cut from Encyclopedias and Primary Readers by Thomas Allen


Beautiful Evidence: New Illustrations Cut from Encyclopedias and Primary Readers by Thomas Allen pop ups illustration books

Beautiful Evidence: New Illustrations Cut from Encyclopedias and Primary Readers by Thomas Allen pop ups illustration books
Beautiful Evidence: New Illustrations Cut from Encyclopedias and Primary Readers by Thomas Allen pop ups illustration books
Beautiful Evidence: New Illustrations Cut from Encyclopedias and Primary Readers by Thomas Allen pop ups illustration books
Beautiful Evidence: New Illustrations Cut from Encyclopedias and Primary Readers by Thomas Allen pop ups illustration books
Beautiful Evidence: New Illustrations Cut from Encyclopedias and Primary Readers by Thomas Allen pop ups illustration books
Book artist Thomas Allen (previously) just published a dozen new works in advance of his forthcoming show, Beautiful Evidence, at Foley Gallery in New York opening September 9th, 2012. Allen pours through old encyclopedias, primary readers and science books to extract figures for these perfectly composed illustrations. See the rest over on his blog.
via Thisiscolossal

Clopen | a floating shelf that hides a secret drawer



photos by Yosuke Owashi

It’s a simple, unassuming floating shelf that appears to be made from a single piece of timber. But 2 stubs of wood that conceal magnets act as “keys,” revealing a secret 23mm drawer that can hide valuables like your passport or jewelry. So cool!
Titled “clopen,” the secret was designed by Torafu Architects (previously).

BRUNO MUNARI: MY FUTURIST PAST



The exhibition Bruno Munari: My Futurist Past aims to investigate the activity of one of the most complex, creative and multi-faceted figures of Italian 20th century art. It will analyse Bruno Munari’s aesthetic development from his initial Futurist phase (around 1927) to the post-war period (up to 1950) when, as one of the founders of the Movimento Arte Concreta, he became a point of reference for a new generation of Italian artists. It will also illustrate how his pioneering work exerted an influence that stretched far beyond the borders of his native country.
Bruno Munari began his career within the Futurist movement. From the very beginning, he was concerned with exploring the possibility of representing painting spatially through a continuous flow of forms rendered mutable through the incorporation of a temporal dimension, in accordance with the theories of Giacomo Balla and Fortunato Depero in their 1915 Manifesto ‘Futurist Reconstruction of the Universe’. Munari described the roots of his work as his ‘Futurist past’, and the movement’s ambitious scope certainly informed his kaleidoscopic career, leading him to work across a range of media and disciplines from painting to photomontage, sculpture, graphics, film and art theory. Indeed, his influences were extremely varied, also reflecting the aesthetics and sensibilities of movements such as Constructivism, Dada, and Surrealism… (press release)
September 19 – December 23, 2012
Estorick Collection of Modern Italian Art, London

martedì 28 agosto 2012

E chiamarmi Giovanni


Existe un mundo – real, esencial − que no depende de mí, y existo yo, que tampoco dependo de mí, dentro del mundo, pero no soy como el mundo: Nella brezza / leggera, dal finestrino aperto, /mi nascono sogni ed immagini / dentro.”. Ni siquiera soy como la hierba, que permanece inmutable, que no prega; es más, como podemos ver en los verso anteriores, todo eso existe dentro de mí. Pero he aquí el drama del hombre: ¿quién puso todas estas cosas dentro de mí?; ¿por qué y para qué estoy yo en el mundo?; ¿quién puso el mundo y quien me puso a mí dentro de él? Es por esto que el poeta dice “E chiamarmi Giovanni è molto strano”, pero yo fácilmente puedo decir: y llamarme Víctor es muy extraño, y cada uno puede decir su nombre (como de hecho lo hace Borges en su poema Yo, en donde hablando de un sinfín de cosas dice: “Soy esas cosas”, y es muy raro, pero “más raro es ser el hombre que entrelaza palabras en un cuarto de su casa”). Y es que mi nombre es la expresión de mi ser, de mi existir. Sin embargo ser, existir, es muy extraño, porque soy, pero no soy el Ser, es decir, puedo dejar de ser, ya que yo no me di el ser. De hecho, como veíamos en las dos poesías anteriores, el hombre ni siquiera es un ser consumado, es un ser herido, divido, que necesita de quien lo recoja y lo perdone, necesita que Alguien le de su realización total, su unidad total, ya no amenazada por la contingencia, cuyo rostro más claro es el de la muerte. Que el hombre es necesidad, es algo que ni siquiera merece justificarse, porque lo constatamos a cada ínstate: necesitamos alimento, seguridad, diversión, reposo, cariño… y lo peor es que nunca dejamos de necesitar, somos como un recipiente sin fondo, que no se llena con nada. En otras palabras, hay una apertura al infinito; por eso en cada cosa alcanzada, como dice Montale, en S’è rifatta la calma, parece estar escrito più in là, más allá. Se trata de un vínculo con el misterio del infinito, vinculo que me indica mi destino y mi origen. Pero, ¿quién es ese Infinito? ¿Quién es este Alguien que puede colmar mi existencia? ¿Quién es este Ser infinito que fundamenta toda la realidad, incluido yo? Antes de ver la respuesta de Riva, aunque realmente ya se ha venido insinuando a lo largo de los poemas leídos, importa también señalar que el poemario es una obra de juventud; en el derrotero del autor, podremos encontrar cierta evolución, por ejemplo en el sitio que ocupa la voz poética, de la experiencia personal, a la posición didáctica que irá acompañada de un intencionado anti-esteticismo que ya está en germen en este poemario, por ejemplo en Non ci si è ben capiti, que en su forma dialogada se antoja pesado a veces, cito un ejemplo: “il senso esauriente del vivere”; en lo personal me parece un verso licencioso. ¿Acaso el autor no pudo encontrar uno mejor? Sí, pudo, pero hubiera hecho una conversación entre poetas, no de uno que se pregunta, de uno que busca, que el lenguaje no le da para explicar su angustia. Sí, es poco artístico, o digamos es poco estético, y lo es por la misma razón de que no busca agradar. Pero a propósito de Non ci si è ben capiti, una de las necesidad más grandes que tiene el hombre, por no decir la más, es la necesidad de amistad con los otros hombres. En el descubrimiento, a partir de mis necesidades, del misterio del origen y del destino, soy también conducido hacia el sentido de la sociabilidad. La necesidad de realizarme me une a los demás hombres. Es un reconocerse juntos que no es ficticio, que no es abstracto, que no está basado en datos sociológicos, etnológicos o históricos; es un reconocerse juntos que acontece con anterioridad ya que está fundado en el origen y en el destino común, en lo humano que está en todos:

NON CI SI È BEN CAPITI
La torre s’arrampica sulle nuvole e si lega
alla terra e ai sassi, io penso
alla tua età, io penso a te.

Io mi chiedo – dicevi – a che serve
imparare un lavoro, se poi non ci date
qualcosa
su cui appoggiare – piantare
radici profonde – il lavoro ed il senso
esauriente
del vivere ed anche del tempo
che resta o trascorre.

Se due canne, sulla sponda
imparruccata, si curvano
fino a toccarsi, io penso che è già troppo tardi
per dirti che fare amicizia è un problema.
Come è difficile – dici – com’è veramente
difficile; non si può dire o pensare
o vedere più in là la durezza della nostra
sfortuna di vivere accanto nel fango.

Ebbene – io dico –, forse
non ci si è ben capiti sul senso di questo alfabeto
ritmato di accenti grossolani e di avviliti
mormorii. L’amicizia è il senso
– significato profondo –
della vita e del pianto e dell’esser soli. Incontrarsi
e andarsene a casa, una sola è la casa. È profezia l’amicizia,
significato dell’ origine comune
di noi viventi.

L’imprevisto è la sola speranza, Esposizioni al Tonalestate 2012


L’artista a volte viene graziato. Un incontro umano riuscito risveglia il desiderio vero di una vita piena, di qualcosa a cui dedicarsi e per cui lasciare tutto, per cui scommettere la propria vita. Allora egli esce dal suo letargo, dai suoi schemi perfetti, dalle sue perfette strutture. Accade che un’azione ancora incompiuta nel suo svolgersi venga interrotta da un fatto nuovo, di diverso, di altro rispetto ad ogni progetto. Questo è il tema che le esposizioni di Tonalestate 2012 intendono affrontare: l’imprevisto che viene a cambiare lo sguardo dell’artista, l’imprevisto che lo “ converte”, termine che, nel linguaggio militare, indica appunto un cambiamento di direzione fisica. Si va allora alla questione unica, quella dell’esserci, per un certo tempo, su questa terra. A chi e a cosa dedicare la vita? Aspettiamo un incontro, qualcuno che venga a cambiare l’uomo vecchio, a trasformarlo, a renderlo nuovo. Un amico, un imprevisto, un ideale, al quale dedicare la propria vita, per il quale l’artista guarda alla sua opera come a un compito.

a Ponte di Legno

Takayoshi Shibata, Francesco Fontanesi, Vladimir Sabillon
“Ma pe‘tte, sole pe‘tte, esce dall’anima me”, Hotel Mirella, Ingresso Salone Paradiso
Se l’arte non è segno di una ricerca non può dirsi tale. Se l’arte non produce un moto nel cuore dell’uomo, non ha senso. L’“ars gratia artis”, “l’art pour l’art”, si dimostra un ideale sterile in questo mondo pieno di ingiustizie imposte che sepelliscono nello profondo il desiderio umano di giustizia, un mondo pieno di risposte limitate alla domanda infinita dell’uomo: e io chi sono? Cosa sono venuto a fare? Che motivo ho di esistere? Ciascuno di questi tre artisti ha una storia diversa, tanto da sembrare ironico il loro essere insieme. Il loro lavoro ha pero’ la stessa coscienza: non esaurirsi nella pura ricerca del bello, ma camminare spediti verso la ricerca della verità. Aristotele dirà: “Platone è mio amico, ma la verità mi è ancora più amica”. Questa ricerca può essere destata solamente da un incontro umano riuscito, da un incontro personale che non evada dalla domanda dell’uomo, un incontro che ascolti il desiderio d’infinito del cuore e che tuttavia sappia rivelarsi in un particolare incontrabile. Un incontro capace di radunare un giapponesse, un italiano e un honduregno. Chi sei tu straniero, que abiti le isole desolate del mio cuore? Chi sei tu che fai si che esca dall’anima mia un canto che non si può trattenere?
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“Manifesto di una storia, Vol 2: Tonalestate 2001-2012”, Sala Consigliare, Piazzale Europa
Passeggiare, davanti ai 12 poster delle prime edizioni di Tonalestate, é, per noi che abbiamo vissuto quest’isola di resistenza, una “pace che il mondo irride, ma che rapir non puo’”. Ed é, allo stesso tempo, il “manifestarsi” di una storia che ci é stata donata per grazia, e che si manifesta non solo a noi che abitiamo quest’isola, ma a ogni uomo che lo voglia. L’esposizione dei manifesti delle precedenti edizioni ha una dimensione storica. I 12 anni di Tonalestate raccontati non a parole, sempre cosi inadeguate ai fatti, ma per immagini, “manifesta” il fatto che sempre, là dove si esce da sé per incontrare l’altro nella sua umanità più profonda, l’amore genera un’azione, un lavoro. Si ha allora un fatto storico. Tonalestate é dunque fatto storico e il suo esserci “manifesta” che nella storia occorre ancora lavorare e imparare.
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“198 scatti fotografici” mostra dei calendari dell’associazione I Sant’Innocenti, Sala Consigliare, Piazzale Europa
Come due amici di lunga data che si incontrano e rievocano, vivendolo ancora, il passato, così Tonalestate invita l’Associazione I Sant’Innocenti a esporre i 198 scatti fotografici che, nel corso del tempo, hanno dato vita ai calendari dell’Associazione, editi per sostenere il quotidiano lavoro di ISI nel mondo. 198 immagini che raccontano di un’umanità, di uomini nuovi, dell’incontro con l’Altro. 198 immagini che testimoniano di vite dedicate, spese per la costruzione di una vera comunità umana, partendo da condizioni di estrema precarietà, partendo da chi é emarginato dal mondo, da chi é calpestato, nella sua dignità umana, dall’uomo vecchio. Sono scatti di fotografi molto noti e di giovani incuriositi di fronte allo svelarsi di una realtà che grida l’ingiustizia insieme alla forza della fraternità, l’orrore del male insieme alla grandezza della lotta inesausta per la difesa dell’uomo. Sono volti e storie, sono documenti di oltraggi alla dignità umana e manifesti di realtà libere dalla barbarie.
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al Passo del Tonale

Kei Nemoto
“Analogia dello spirito nel quotidiano”, Hotel “La Mirandola”
Osservando attentamente lo straordinario lavoro del maestro Nemoto, scorgiamo la meraviglia manifestarsi nel quotidiano. A Tonalestete 2012 espone alcune stampe che ricordano la pittura metafisica dei primi anni di Giorgio de Chirico, dove gli oggetti sono come in ascolto. La mente corre anche a un dipinto ancora più emblematico: “ l’attesa” di Felice Casoratti. Tutto è nel giusto luogo, come nella speranza che qualcosa avvenga. Nemoto esprime l’oggettività dell’ amore: quando si ama, ci si organizza. L’amore crea. Questa è la silenziosa domanda del Maestro Kei Nemoto: se ci sei, mostrati a me, io sono in ascolto.  La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere.

Per saperne di più: TONALESTATE.COM

Bene legge Leopardi

Forma Urbis: I dipinti murali del XII secolo nella basilica di San Giovanni a Porta Latina a Roma

Roma, San Giovanni a Porta Latina, interno.


1.2 L’edificio
L’edificio si apre di fronte a una piazza, il cui asse centrale corre da nord-ovest a sud-est, parallelo alla via Latina. Anticamente, l’area circostante era scarsamente abitata e poche tracce di tombe romane, anteriori alla costruzione delle Mura Aureliane, sono state rinvenute ai lati dell’omonima strada. La facciata è preceduta da un portico, sostenuto da cinque archi poggianti su due pilastri rastremati alle estremità laterali e su quattro colonne, che presentano basi, fusti e capitelli prelevati da antichi edifici. L’ampia fronte del portico si conclude con un alto attico e un fregio a mensola su cui si imposta direttamente la copertura. Un ampio portale cosmatesco, dal fregio intarsiato a porfido rosso e verde, consente l’accesso alla navata centrale. Originariamente due ulteriori aperture di minori dimensioni garantivano l’entrata all’interno della chiesa. Alla sua sinistra è situato il pozzo, fiancheggiato da due colonne con capitelli a foglie stilizzate e di piccole dimensioni, databili alla fine del V secolo. Appartiene, probabilmente, all’epoca di papa Adriano I (772-795) la margella dello stesso, dalla forma troncoconica e dal corpo decorato da un albero della vita, dal cui fusto centrale si dipartono due serie sovrapposte di racemi e nelle cui volute si dispongono fiori a petali ruotanti. Sul margine corre la scritta: in nomine pa(tri) et filii spi (ritus sant) i/omnes sitie (ntes venites ad aquas)/Ego Stefanus; il verso riporta le parole del profeta Isaia (55, 1): o voi tutti assetati, venite all’acqua. Sul lato sinistro del portico, e in stretta correlazione con esso, si innalza l’alta torre campanaria, variamente datata fra gli inizi dell’XI –XII secolo. Di forma quadrata essa mostra cinque piani di finestre, monofore nel piano inferiore, bifore con pilastro mediano al livello successivo e trifore colonnate negli ultimi tre piani. L’interno dell’edificio è diviso in tre navate da due file di cinque colonne, in parte di reimpiego, sulle quali poggiano archi semicircolari. La navata centrale, alta 10,07 m. e larga 7,5 m., conclusa da un corto e oblungo avancoro e da un’abside, è ricoperta, come le navate, da un tetto a travi scoperte. Piccole finestre arcuate si aprono sopra le arcate e nella parete della facciata, dove sono chiuse da transenne marmoree. Anche le navate minori prendono luce da piccole finestre a semicerchio, ma le prime due campate di quella destra, confinanti con gli edifici del monastero, sono prive di aperture. La parte terminale della chiesa è costituita da un coro tripartito – frequente fra V e VI secolo a Ravenna, a Bisanzio e nelle regioni limitrofe – con avancorpi, in comunicazione con le navate mediante aperture ad arco. L’abside principale, dotata su ogni lato di un’apertura a tutto sesto e chiusa da lastre di onice giallo miele, si presenta semicircolare all’interno e poligonale all’esterno, formata dai tre lati di un esagono. Le navate minori terminano con due vani, i pastoforii, nei quali si aprono due piccole absidi; esse sono semicircolari, prive di finestre e addossate perpendicolarmente al muro di chiusura delle navate minori. Secondo Krautheimer i locali laterali, uno dei quali forse originariamente adibito a contenere il fonte battesimale, andrebbero ricondotti alle chiese cristiane d’Oriente. La cronologia della basilica è ancora oggi molto dibattuta, avendo l’individuazione e la conseguente datazione delle sue diverse strutture murarie determinato pareri contrastanti tra gli studiosi. Krautheimer riconobbe nell’edificio due diversi tipi di muratura, che datò al V-VI secolo e al XII secolo. Matthiae, invece, fra il livello pavimentale paleocristiano e quello attuale di XII secolo, individuò uno stadio intermedio, che ascrisse alla fase edilizia di Adriano I (772-795). Di recente Claussen ha datato la parete laterale nord del portico, le navate con le relative arcate e la parete occidentale dell’edificio – di apparente muratura paleocristiana – alla fine dell’XI secolo. È dunque plausibile collegare il rifacimento architettonico di epoca romanica a un momento precedente la nuova dedicazione di Celestino III (1191-1198), verosimilmente compreso fra la fine dell’XI secolo (Claussen) e la prima metà del XII secolo. Per Parlato e Romano appare ragionevole congiungere l’avvio della nuova campagna edilizia al 1144, momento di passaggio di San Giovanni a Porta Latina al Capitolo lateranense. Schumacher e Sartori hanno tuttavia rilevato come la data del 1191 debba essere considerata unicamente quale testimonianza della riconsacrazione dell’altare, a seguito della sostituzione delle reliquie dell’Evangelista, passate al Sancta Sanctorum, con quelle dei santi Gordiano ed Epimaco, giunte a San Giovanni dal vicino ed eponimo cimitero di via Latina. La piccola targa marmorea disposta sotto l’altare maggiore, con i nomi dei martiri in caratteri epigrafici del tempo, rinvenuta durante gli scavi del 1915, sembra consolidare tale ipotesi. L’epigrafe di Celestino III, infatti, menziona il 10 maggio, anniversario del martirio dei due santi, e non il 6, data dell’Evangelista. Anche Orietta Sartori ritiene improbabile ancorare massicci lavori di ricostruzione ai decenni precedenti il 1191. L’epoca di maggiore fortuna dell’edificio può infatti considerarsi conclusa già alla metà del secolo; inoltre la chiesa, intorno al 1170, risultava funzionante per la tradizionale festività della stazione pasquale ivi celebrata.

sabato 25 agosto 2012

Javier Sicilia: ricordare le ragioni

Il 28 marzo 2011, dopo l’omicidio di suo figlio Juan Francisco, il poeta Sicilia ha cominciato una ribellione pacifica che ha coinvolto decine di migliaia di cittadini, vittime e gruppi della società civile che erano rimasti in silenzio oppure non avevano trovato spazi per esprimere la loro rabbia.

Cosi è nato il Movimiento por la Paz, che ancora oggi continua il suo viaggio attraverso il paese.

Potete trovare informazioni sulle ragioni del movimento e sul lavoro di Sicilia a queste pagine:
http://movimientoporlapaz.mx/
e

Riproponiamo la lettera di Javier Sicilia, che diede inizio al movimento:

Estamos hasta la madre…

(Carta abierta a los políticos y a los criminales)

PROCESO / ABRIL 2011

El brutal asesinato de mi hijo Juan Francisco, de Julio César Romero Jaime, de Luis Antonio Romero Jaime y de Gabriel Anejo Escalera, se suma a los de tantos otros muchachos y muchachas que han sido igualmente asesinados a lo largo y ancho del país a causa no sólo de la guerra desatada por el gobierno de Calderón contra el crimen organizado, sino del pudrimiento del corazón que se ha apoderado de la mal llamada clase política y de la clase criminal, que ha roto sus códigos de honor.
No quiero, en esta carta, hablarles de las virtudes de mi hijo, que eran inmensas, ni de las de los otros muchachos que vi florecer a su lado, estudiando, jugando, amando, creciendo, para servir, como tantos otros muchachos, a este país que ustedes han desgarrado. Hablar de ello no serviría más que para conmover lo que ya de por sí conmueve el corazón de la ciudadanía hasta la indignación. No quiero tampoco hablar del dolor de mi familia y de la familia de cada uno de los muchachos destruidos. Para ese dolor no hay palabras –sólo la poesía puede acercarse un poco a él, y ustedes no saben de poesía–. Lo que hoy quiero decirles desde esas vidas mutiladas, desde ese dolor que carece de nombre porque es fruto de lo que no pertenece a la naturaleza –la muerte de un hijo es siempre antinatural y por ello carece de nombre: entonces no se es huérfano ni viudo, se es simple y dolorosamente nada–, desde esas vidas mutiladas, repito, desde ese sufrimiento, desde la indignación que esas muertes han provocado, es simplemente que estamos hasta la madre.
Estamos hasta la madre de ustedes, políticos –y cuando digo políticos no me refiero a ninguno en particular, sino a una buena parte de ustedes, incluyendo a quienes componen los partidos–, porque en sus luchas por el poder han desgarrado el tejido de la nación, porque en medio de esta guerra mal planteada, mal hecha, mal dirigida, de esta guerra que ha puesto al país en estado de emergencia, han sido incapaces –a causa de sus mezquindades, de sus pugnas, de su miserable grilla, de su lucha por el poder– de crear los consensos que la nación necesita para encontrar la unidad sin la cual este país no tendrá salida; estamos hasta la madre, porque la corrupción de las instituciones judiciales genera la complicidad con el crimen y la impunidad para cometerlo; porque, en medio de esa corrupción que muestra el fracaso del Estado, cada ciudadano de este país ha sido reducido a lo que el filósofo Giorgio Agamben llamó, con palabra griega, zoe: la vida no protegida, la vida de un animal, de un ser que puede ser violentado, secuestrado, vejado y asesinado impunemente; estamos hasta la madre porque sólo tienen imaginación para la violencia, para las armas, para el insulto y, con ello, un profundo desprecio por la educación, la cultura y las oportunidades de trabajo honrado y bueno, que es lo que hace a las buenas naciones; estamos hasta la madre porque esa corta imaginación está permitiendo que nuestros muchachos, nuestros hijos, no sólo sean asesinados sino, después, criminalizados, vueltos falsamente culpables para satisfacer el ánimo de esa imaginación; estamos hasta la madre porque otra parte de nuestros muchachos, a causa de la ausencia de un buen plan de gobierno, no tienen oportunidades para educarse, para encontrar un trabajo digno y, arrojados a las periferias, son posibles reclutas para el crimen organizado y la violencia; estamos hasta la madre porque a causa de todo ello la ciudadanía ha perdido confianza en sus gobernantes, en sus policías, en su Ejército, y tiene miedo y dolor; estamos hasta la madre porque lo único que les importa, además de un poder impotente que sólo sirve para administrar la desgracia, es el dinero, el fomento de la competencia, de su pinche “competitividad” y del consumo desmesurado, que son otros nombres de la violencia.
De ustedes, criminales, estamos hasta la madre, de su violencia, de su pérdida de honorabilidad, de su crueldad, de su sinsentido.
Antiguamente ustedes tenían códigos de honor. No eran tan crueles en sus ajustes de cuentas y no tocaban ni a los ciudadanos ni a sus familias. Ahora ya no distinguen. Su violencia ya no puede ser nombrada porque ni siquiera, como el dolor y el sufrimiento que provocan, tiene un nombre y un sentido. Han perdido incluso la dignidad para matar. Se han vuelto cobardes como los miserablesSonderkommandos nazis que asesinaban sin ningún sentido de lo humano a niños, muchachos, muchachas, mujeres, hombres y ancianos, es decir, inocentes. Estamos hasta la madre porque su violencia se ha vuelto infrahumana, no animal –los animales no hacen lo que ustedes hacen–, sino subhumana, demoniaca, imbécil. Estamos hasta la madre porque en su afán de poder y de enriquecimiento humillan a nuestros hijos y los destrozan y producen miedo y espanto.
Ustedes, “señores” políticos, y ustedes, “señores” criminales –lo entrecomillo porque ese epíteto se otorga sólo a la gente honorable–, están con sus omisiones, sus pleitos y sus actos envileciendo a la nación. La muerte de mi hijo Juan Francisco ha levantado la solidaridad y el grito de indignación –que mi familia y yo agradecemos desde el fondo de nuestros corazones– de la ciudadanía y de los medios. Esa indignación vuelve de nuevo a poner ante nuestros oídos esa acertadísima frase que Martí dirigió a los gobernantes: “Si no pueden, renuncien”. Al volverla a poner ante nuestros oídos –después de los miles de cadáveres anónimos y no anónimos que llevamos a nuestras espaldas, es decir, de tantos inocentes asesinados y envilecidos–, esa frase debe ir acompañada de grandes movilizaciones ciudadanas que los obliguen, en estos momentos de emergencia nacional, a unirse para crear una agenda que unifique a la nación y cree un estado de gobernabilidad real. Las redes ciudadanas de Morelos están convocando a una marcha nacional el miércoles 6 de abril que saldrá a las 5:00 PM del monumento de la Paloma de la Paz para llegar hasta el Palacio de Gobierno, exigiendo justicia y paz. Si los ciudadanos no nos unimos a ella y la reproducimos constantemente en todas las ciudades, en todos los municipios o delegaciones del país, si no somos capaces de eso para obligarlos a ustedes, “señores” políticos, a gobernar con justicia y dignidad, y a ustedes, “señores” criminales, a retornar a sus códigos de honor y a limitar su salvajismo, la espiral de violencia que han generado nos llevará a un camino de horror sin retorno. Si ustedes, “señores” políticos, no gobiernan bien y no toman en serio que vivimos un estado de emergencia nacional que requiere su unidad, y ustedes, “señores” criminales, no limitan sus acciones, terminarán por triunfar y tener el poder, pero gobernarán o reinarán sobre un montón de osarios y de seres amedrentados y destruidos en su alma. Un sueño que ninguno de nosotros les envidia.
No hay vida, escribía Albert Camus, sin persuasión y sin paz, y la historia del México de hoy sólo conoce la intimidación, el sufrimiento, la desconfianza y el temor de que un día otro hijo o hija de alguna otra familia sea envilecido y masacrado, sólo conoce que lo que ustedes nos piden es que la muerte, como ya está sucediendo hoy, se convierta en un asunto de estadística y de administración al que todos debemos acostumbrarnos.
Porque no queremos eso, el próximo miércoles saldremos a la calle; porque no queremos un muchacho más, un hijo nuestro, asesinado, las redes ciudadanas de Morelos están convocando a una unidad nacional ciudadana que debemos mantener viva para romper el miedo y el aislamiento que la incapacidad de ustedes, “señores” políticos, y la crueldad de ustedes, “señores” criminales, nos quieren meter en el cuerpo y en el alma.
Recuerdo, en este sentido, unos versos de Bertolt Brecht cuando el horror del nazismo, es decir, el horror de la instalación del crimen en la vida cotidiana de una nación, se anunciaba: “Un día vinieron por los negros y no dije nada; otro día vinieron por los judíos y no dije nada; un día llegaron por mí (o por un hijo mío) y no tuve nada que decir”. Hoy, después de tantos crímenes soportados, cuando el cuerpo destrozado de mi hijo y de sus amigos ha hecho movilizarse de nuevo a la ciudadanía y a los medios, debemos hablar con nuestros cuerpos, con nuestro caminar, con nuestro grito de indignación para que los versos de Brecht no se hagan una realidad en nuestro país.
Además opino que hay que devolverle la dignidad a esta nación.

Traduzione della lettera in italiano:
http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/4545

giovedì 23 agosto 2012

Ipse dixit: Horkheimer

Médiatisés par la société totale qui a investi toutes les relations et tous les sentiments, les hommes redeviennent ce contre quoi s'était retourné la loi de l'évolution de la société, le principe du moi: les simples représentants d'une espèce que l'isolement dans une société gouvernée par la coercition rend tous semblables. Les rameurs qui ne peuvent se parler obéissent tous au même rythme, comme le travailleur moderne à l'usine, au cinema et dans la vie collective.
Max Horkheimer

lunedì 13 agosto 2012

Io non potrei vivere in questo mondo imbecille


“La sfera e la croce” G.K Chesterton

Dopo la conferma della scoperta del bosone di Higgs si fa strada la convinzione che siamo prossimi ad una spiegazione razionale, cioè scientifica (?), dell’origine della realtà fisica. Da quanto abbiamo scoperto- dicono già gli scienziati- c’è una provocazione ad indagare oltre: qualcosa si profila ancora più in là.
C’è come una “follia” radicata nella ragione umana che è fatta per indagare ed è protesa verso l’origine di ciò che consideriamo reale dentro e fuori dell’uomo.

L’attualità ci suggerisce la rilettura de’ la Sfera e la Croce, romanzo pubblicato nella prima decade del ‘900 da Gilbert K. Chesterton, scrittore ritenuto un “visionario”.
James Turnbull , direttore della rivista l’Ateo, pubblica un articolo nel quale, un lettore, Evan Mc Jan, crede di vedere un insulto alla Madonna. I due si sfidano a duello per la difesa della propria idea sull’uomo e sulla vita. Un duello che non può aver luogo, continuamente disturbato da fatti e personaggi che lo impediscono. Entrambi i protagonisti, all’inizio, sono due fanatici della loro posizione, indisponibili a un confronto e, perciò, entrambi fideisti. Nel momento in cui sono prossimi a battersi, si imbattono in Lucifero che ha fatto dell’Inghilterra un grande manicomio per chi ha smarrito lo scopo del proprio agire dopo aver abbandonato l’idea di condurre la ragione fino al suo vertice sul quale si profila la risposta della fede. Nella chiusa perfezione della sfera c’è il simbolo dell’autoreferenzialità luciferina che tenta di scrollarsi di dosso la provocazione della croce, con le sue braccia aperte in ogni direzione, un legno sul quale un uomo ha preso posizione sullo scopo della vita.
L’ultimo gesto di Satana è appiccare un incendio alla casa di reclusione prima che la questione arrivi al dunque. A tal punto era già pervenuto Michele, rinchiuso per questo nella cella più segreta, senza alcuna via d’uscita. McJan lo sente cantare e lo vede indicare a tutti una via verso la salvezza: è possibile riconoscere una risposta al mistero dell’esistenza e tale fede vale il sacrificio della vita. “Questo mondo crudele mi è dolce perché più alto dei cieli c’è qualcosa di più umano dell’umanità (…) Io non potrei vivere in questo mondo imbecille.”
T.B.

martedì 7 agosto 2012

Il nostro amico Giovanni, in rapporto con l’infinito e con gli uomini



Ciò che vi racconterò è la storia di un uomo che ha dimenticato se stesso per servire l’uomo e la sua umanità. Non è, il mio, un compito semplice perché mi coinvolge sul piano personale ed emotivo e perché colui del quale vi voglio parlare è il professore Giovanni Riva, un uomo dedicato, in rapporto con l’infinito e quindi con gli uomini. Un uomo che ci ha lasciati il 22 aprile di quest’anno.

I responsabili di TONALESTATE mi hanno chiesto questa testimonianza sia per la mia frequentazione con Giovanni sia perché il professor Riva è stato il fondatore e il vero ideatore e regista del Tonalestate stesso.

Non vi racconterò di Giovanni come se io fossi uno storico, non farò una biografia del personaggio, ma ve lo racconterò essendone io testimone e spettatore, in rapporto alla mia vita e alla mia comprensione perché, credo, sia questo il modo migliore per farne memoria: non come un personaggio-immagine quindi, ma come una persona che ha avuto la capacità di cambiare la mia vita e quella di molti di coloro che l’hanno conosciuto

Ho incontrato Giovanni nel 1963 (49 anni fa), io ragazzino e lui un po’ più vecchio di me e, da allora, abbiamo fatto molta strada assieme e, da allora, non ho mai smesso di ascoltarlo e di seguirlo e di essergli al fianco.

Questo è l’inizio della nostra amicizia e la racconto con le sue parole, dall’intervista che il professor Riva ha rilasciato nel 2008 al professor Nesti per la sua “Rivista di scienze sociali della religione” intervista che trovate al banco della libreria.

“Insegnavo all’Istituto magistrale Matilde di Canossa a Reggio Emilia, quando l’istituto era ancora in corso Garibaldi, vicino alla Prefettura. Erano alcuni anni prima del ’68; e don Oreste Cilloni, direttore del collegio Dante, un collegio che si trovava in via Emilia, dove oggi ha sede la Finanza, vicino all’altro collegio San Vincenzo, mi chiamò a tenere una conferenza, non ricordo su che tema, per un gruppetto di giovani, in quello che era il centro studentesco diocesano San Giorgio, che aveva sede in via Farini. Andai, tenni la conferenza e il dibattito seguente; ma la vicenda non finì lì, poiché cominciai un’amicizia con quei giovani, che non erano soltanto studenti: ogni tanto, mi invitavano per tenere loro altri incontri, su vari temi di cultura generale o di attualità.”

Giovanni ci dice, in questa intervista, di non ricordare il tema di quel primo incontro ma io lo ricordo e riguardava il come e il perché studiare e quali rapporti instaurare con i compagni e i professori nelle classi. Ricordo anche che al quel primo incontro eravamo in cinque e che don Oreste Cilloni deve aver ottenuto evidentemente una grazia speciale per distoglierci dal giocare a bigliardino o a ping pong o dal suonare la chitarra. Certo, una grazia una tantum poiché al secondo incontro non soltanto non avevamo bisogno di essere spronati a partecipare ma avevamo chiamato alcuni nostri compagni di classe (frequentavamo tutti classi diverse) per ascoltare un giovane professore che insinuava (ed era cosa affascinante) che la vita la si può vivere con un significato. E lo abbiamo verificato. Ci diceva, mentre parlava di storia e di geografia, che il senso appunto della storia e della geografia e il senso della vita per lui era altro, trascendente rispetto se stessi, e che lui aveva trovato in Gesù Cristo. Per noi, ragazzini nemmeno tutti cattolici, fu, all’inizio, quasi uno scandalo o, per lo meno, una sorpresa. Però poi l’incontro è diventato vita vissuta e, inizialmente, si è strutturato chiamandosi “Gioventù Studentesca”. Eravamo cresciuti di numero e nel dicembre 1966 abbiamo indetto il primo convegno del quale sono stati pubblicati gli atti dal titolo “Riflessioni da un convegno”. Mi permetto di leggervi alcuni brevi passi per poter ben inquadrare la situazione così da poter, poi, procedere speditamente nel racconto.

“I nostri passi sono tensione: mai possono essere definitivo risultato” cioè non si arriva mai alla meta, essa è sempre un po’ più in là rispetto al cammino fatto, è una ricerca continua.

E ancora: “Noi sentiamo di non essere migliori degli altri: ma forse più degli altri sentiamo il bisogno di salvarci, di uscire dalla distrazione e risolvere le molte crisi di indifferenza che l’ambiente scolastico ha contribuito a formare in noi.” Quindi dentro al mondo, in questo caso l’ambiente scolastico, ma con la coscienza che bisogna cercare altro.

Nella premessa agli atti, scrive: “Occorre un’idea per costruire, altrimenti ammassiamo dei ruderi. Non si può costruire nulla se non con un’idea precisa. Il prendere un’iniziativa è prendere coscienza di un valore ed agire per esso. È necessario, per la maturità, che il giovane abbia già ottenuto una preparazione tale, un criterio unitario che gli consenta di giudicare. All’espletamento di tale lavoro di formazione il giovane non perviene da sé, né in ciò viene aiutato dall’ambiente scolastico. È sorta in noi quindi l’esigenza che a questa lacuna supplisse un ambiente diversamente impostato dalla scuola, che cercasse di aiutarci nella necessaria verifica della tradizione cristiana (la cui importanza è tale per cui nessun uomo può inoltrarsi nella vita con lealtà senza prendere chiara posizione di fronte ad essa) seguendo il ritmo stesso della vita studentesca”.

Nella scuola quindi ma con altra coscienza, nel mondo quindi senza, dal mondo, assorbire acriticamente i criteri. Mi sembra chiaro.

Questo è il mio inizio con il professor Giovanni Riva. Oggi, nella coscienza di un cammino lunghissimo di cui non si intravede ancora il traguardo, cosa devo a Giovanni?

Ci ha insegnato a studiare proponendo, allora, vere e proprie revisioni culturali sulla letteratura, la storia, la geografia, le scienze; invitandomi e invitandoci a collaborare a un doposcuola in un quartiere marginale di Reggio Emilia da lui voluto e realizzato e anche in un tentativo di università popolare.

Ci ha insegnato a lavorare collaborando con lui nell’organizzare attività sia per studenti che per adulti, chiamandomi in seguito a fare segreteria per il movimento che poi avrebbe fondato.

Ci ha insegnato a rischiare quando lui ha iniziato in una canonica l’avventura di una scuola materna, “scuola materna Arca di Noè” senza spaventarsi delle difficoltà sia economiche che sociali e quando mi ha prospettato l’idea di abbandonare il mio lavoro per dedicarmi a un’opera che stava nascendo; o quando ha iniziato a Reggio Emilia la libreria “Nuova Terra” e la grande avventura di una casa editrice “Città Armoniosa” che certamente alcuni di voi, i più anziani, ricordano come uno strumento culturale eccezionale; o quando, più recentemente, ha fondato a Città del Messico una piccola e bella università, “ICTE”

Ci ha insegnato ad amare l’uomo e a dedicargli la vita quando è partito, appunto per Città del Messico, assieme alla sua famiglia, chiamato a insegnare filosofia e teologia ma chiamato anche a vivere la sua personale esperienza in Messico.

E ci ha insegnato la libertà che è la sintesi dell’amore per la vita, la mia e la tua, insieme.

Il Giovanni che abbiamo conosciuto in questi anni è il professore che con noi, allora studenti, ha lavorato nelle revisioni culturali e nell’impegno di presenza nelle scuole; è il poeta e scrittore riconosciuto tale anche nell’esclusivo ambiente letterario non solo italiano; è il filosofo e il teologo, sui cui discorsi e scritti stiamo oggi lavorando e meditando, che ha sviluppato allora il Centro Incontri Teologici, che ha insegnato in Messico fondando anche una facoltà di filosofia; è il cittadino e il protagonista nel mondo specie dove il bisogno e la sofferenza erano insopportabili.

La sua storia lo vede protagonista in varie parti del mondo.

In Spagna, al tempo del regime di Franco, dove aveva conosciuto e intrattenuto rapporti con intellettuali antifranchisti come Alfonso Comin e teologi come José María González Rúiz.

In Corea del Nord nel ‘71 dove andò invitato a visitare la realtà educativa e scolastica coreana e a seguito di quel viaggio pubblicò un libro “Andare a scuola in Korea”.

Nel 1985, come ho già citato si trasferisce in Messico e opera in varie città: Città del Messico, Cotzacoalcos, Villahermosa, insegnando e fondando gruppi di giovani e famiglie.

Dal Messico arrivare al Centro e Sudamerica il passo è breve: in Honduras dove oggi c’è una comunità di giovani, di famiglie e di docenti universitari e dove ha dato vita a una fondazione per l’aiuto ai poveri; in El Salvador dove un numeroso gruppo di giovani e famiglie, alcuni presenti qui a Tonalestate, testimoniano il suo carisma e operano in attività educative e sanitarie da lui fondate o incoraggiate e dirette specialmente ai bambini della strada e alle realtà marginali.

In Venezuela dove a Cabimas e Maracaibo e a Coro c’è oggi una comunità di adulti e professionisti che, avendolo incontrato, lavorano nel Paese secondo il suo stesso spirito.

In Giappone, principalmente a Nagoya e a Tokyo, dove Giovanni si recava spesso a tenere conferenze presso l’università e dove è nata una numerosa comunità della quale alcuni rappresentanti sono in questa sala e dove opera una ong “Olive Japan” da lui voluta e incoraggiata.

Tutto questo vale anche per Francia, Germania, Ungheria. Dove andava, là nasceva una comunità o una opera le quali raccoglievano attorno a sé persone di varie estrazioni, fedi e credo politico: una comunità di uomini innamorati degli uomini, dell’umanità, una comunità di uomini dedicati a un compito, specchio di un ideale vissuto.

La sua presenza non era feconda solo all’estero. Già accennavo alla scuola, al doposcuola, alla libreria, alla casa editrice. E potrei continuare perché in ogni città ha lasciato un segno: sto pensando a Reggio Emilia dove è vissuto, Agropoli, Roma, Venezia, Castelgrande. Un instancabile lavoratore, un instancabile missionario, un instancabile uomo di cultura e di lettere, un instancabile uomo dedicato agli altri uomini, specie a coloro che non hanno voce.

Permettetemi solo un brevissimo accenno a un’opera che mi è rimasta nel cuore e che se non definisce completamente, certamente fotografa la sua voglia di donarsi, di condividere con l’altro, di assumere su di sé, per quanto possibile, il dolore dell’altro. Siamo in El Salvador, agli inizi degli anni 90. Con gli immensi problemi causati dalla guerra civile, fame e morti, costituisce il Paolo Miki Center: è una casa aperta a las niñas de la calle perché possano avere un punto di riferimento sicuro. Lì, in questo Center, a queste adolescenti viene data la possibilità di lavarsi e di sfamarsi e di essere aiutati nelle loro esigenze più semplici; alcune di loro, dopo un primo periodo di rapporti saltuari, prendono confidenza con la struttura e gli operatori e, con loro, Giovanni inizia un percorso educativo, pieno di difficoltà poiché non hanno mai conosciuto l’affetto o la gratuità o, semplicemente, non hanno mai avuto qualcuno che si prendesse cura di loro. Questa iniziale opera per bambini della strada è stata il preludio, principalmente nel desiderio che giovani salvadoregni si dedicassero in gratuità ai piccoli più bisognosi, all’opera che oggi tutti conosciamo come Las Abejitas a Santa Tecla. È solo un esempio, a me particolarmente caro, di come dedicare la vita.

Ma riprendiamo. “Gioventù Studentesca”, della quale ho già accennato, si trasformò in seguito in “One Way”, unica via, e quindi in “Opera di Nàzaret” che sarà riconosciuta, nel 1999, dal Santo Padre, tramite il Pontificio Consiglio per i Laici, come Associazione Internazionale privata di fedeli, di diritto pontificio. Grazie all’insistenza di Sua Eccellenza Mons.Prigione, Arcivescovo e Nunzio Apostolico, ora emerito, in Messico, qui presente, delle qual cosa gliene siamo grati.

E come non citare un altro segno che Giovanni ci ha lasciato come modello per la nostra vita: l’aggregazione di coloro che hanno deciso di “vivere in radicalità, all’interno delle loro condizioni di stato di vita e di professione, lo spirito proprio dell’Opera di Nàzaret stessa, assumendo i consigli evangelici in dedizione e sequela di Gesù Cristo”.

Per capire quest’uomo, il suo guardare all’infinito e il suo desiderare di donarsi interamente agli uomini, vi leggo quanto da lui scritto sullo statuto dell’Opera di Nàzaret; descrive fedelmente e sinteticamente la sua vita: “Proposito dell’Opera di Nàzaret è la testimonianza, affinché il volto presente di Cristo, mediatore di quello del Padre e non mai dissociato dall’amore al destino di felicità degli uomini, venga incontrato da ognuno nella normalità degli ambienti, negli interessi dell’esistenza, nel mondo quotidiano, nelle varie professioni e nelle diverse necessità di uomini, di luoghi e di tempi. … Il fine primario. Nel quotidiano, i singoli si impegnano, con tensione missionaria, a che i loro normali ambienti di lavoro e di vita vengano intelligentemente penetrati, nei loro interessi e nelle loro dinamiche, da una coscienza tesa alla speranza dell’annuncio gioioso: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nàzaret» (Gv 1,45).

Il fine particolare. Nel quotidiano, il singolo accosta, in condivisione caritatevole, il bisogno e le esigenze degli uomini, affrontandoli anche, nei limiti delle proprie possibilità, con quell’operatività e con quell’organicità che sono esigite in funzione dell’attuazione di nuove opere sociali di misericordia spirituale e corporale…, “

Questo è il professor Giovanni Riva, che amando totalmente Gesù ha amato gli uomini.

Io ho avuto un grande dono, ovviamente condiviso con altri, ed è quello di averlo potuto “frequentare” molto, dono del quale oggi ne capisco appieno il valore e ne sento la mancanza. Ho potuto frequentarlo anche nei momenti di sua sofferenza: indimenticabile pienezza di umanità, di vita già tra le braccia di Gesù, di umiltà, quasi a scusarsi del suo stato.

Ciò che abbiamo vissuto e che ci portiamo nel cuore e che volgiamo continuare a vivere e a far crescere è un fatto straordinario seppur umile come umile è stato sempre Giovanni e come ha voluto riconoscerlo la Chiesa la quale, tramite Sua Eminenza il Cardinal Re, lo ha ricordarlo il 22 giugno con una messa celebrata nelle Basilica di San Pietro a Roma, nella ricorrenza del secondo mese della sua scomparsa.

Sono oltre tre mesi che Giovanni non è più con noi e, se da un lato mi sembra ieri che si parlava assieme, dall’altro mi sembra un’eternità di solitudine e a volte mi prende una sorta di rabbia: ho perso Giovanni che mi è stato padre per una vita. Sì, mi è stato padre, maestro e amico.

Ora, la consegna è quella di continuare nella via che Giovanni ha tracciato con costanza, abnegazione, rischio avendone presenti il proposito e il fine primario e particolare.

Giuseppe Staccia

Dal sito di Tonalestate : www.tonalestate.org