martedì 7 agosto 2012

Il nostro amico Giovanni, in rapporto con l’infinito e con gli uomini



Ciò che vi racconterò è la storia di un uomo che ha dimenticato se stesso per servire l’uomo e la sua umanità. Non è, il mio, un compito semplice perché mi coinvolge sul piano personale ed emotivo e perché colui del quale vi voglio parlare è il professore Giovanni Riva, un uomo dedicato, in rapporto con l’infinito e quindi con gli uomini. Un uomo che ci ha lasciati il 22 aprile di quest’anno.

I responsabili di TONALESTATE mi hanno chiesto questa testimonianza sia per la mia frequentazione con Giovanni sia perché il professor Riva è stato il fondatore e il vero ideatore e regista del Tonalestate stesso.

Non vi racconterò di Giovanni come se io fossi uno storico, non farò una biografia del personaggio, ma ve lo racconterò essendone io testimone e spettatore, in rapporto alla mia vita e alla mia comprensione perché, credo, sia questo il modo migliore per farne memoria: non come un personaggio-immagine quindi, ma come una persona che ha avuto la capacità di cambiare la mia vita e quella di molti di coloro che l’hanno conosciuto

Ho incontrato Giovanni nel 1963 (49 anni fa), io ragazzino e lui un po’ più vecchio di me e, da allora, abbiamo fatto molta strada assieme e, da allora, non ho mai smesso di ascoltarlo e di seguirlo e di essergli al fianco.

Questo è l’inizio della nostra amicizia e la racconto con le sue parole, dall’intervista che il professor Riva ha rilasciato nel 2008 al professor Nesti per la sua “Rivista di scienze sociali della religione” intervista che trovate al banco della libreria.

“Insegnavo all’Istituto magistrale Matilde di Canossa a Reggio Emilia, quando l’istituto era ancora in corso Garibaldi, vicino alla Prefettura. Erano alcuni anni prima del ’68; e don Oreste Cilloni, direttore del collegio Dante, un collegio che si trovava in via Emilia, dove oggi ha sede la Finanza, vicino all’altro collegio San Vincenzo, mi chiamò a tenere una conferenza, non ricordo su che tema, per un gruppetto di giovani, in quello che era il centro studentesco diocesano San Giorgio, che aveva sede in via Farini. Andai, tenni la conferenza e il dibattito seguente; ma la vicenda non finì lì, poiché cominciai un’amicizia con quei giovani, che non erano soltanto studenti: ogni tanto, mi invitavano per tenere loro altri incontri, su vari temi di cultura generale o di attualità.”

Giovanni ci dice, in questa intervista, di non ricordare il tema di quel primo incontro ma io lo ricordo e riguardava il come e il perché studiare e quali rapporti instaurare con i compagni e i professori nelle classi. Ricordo anche che al quel primo incontro eravamo in cinque e che don Oreste Cilloni deve aver ottenuto evidentemente una grazia speciale per distoglierci dal giocare a bigliardino o a ping pong o dal suonare la chitarra. Certo, una grazia una tantum poiché al secondo incontro non soltanto non avevamo bisogno di essere spronati a partecipare ma avevamo chiamato alcuni nostri compagni di classe (frequentavamo tutti classi diverse) per ascoltare un giovane professore che insinuava (ed era cosa affascinante) che la vita la si può vivere con un significato. E lo abbiamo verificato. Ci diceva, mentre parlava di storia e di geografia, che il senso appunto della storia e della geografia e il senso della vita per lui era altro, trascendente rispetto se stessi, e che lui aveva trovato in Gesù Cristo. Per noi, ragazzini nemmeno tutti cattolici, fu, all’inizio, quasi uno scandalo o, per lo meno, una sorpresa. Però poi l’incontro è diventato vita vissuta e, inizialmente, si è strutturato chiamandosi “Gioventù Studentesca”. Eravamo cresciuti di numero e nel dicembre 1966 abbiamo indetto il primo convegno del quale sono stati pubblicati gli atti dal titolo “Riflessioni da un convegno”. Mi permetto di leggervi alcuni brevi passi per poter ben inquadrare la situazione così da poter, poi, procedere speditamente nel racconto.

“I nostri passi sono tensione: mai possono essere definitivo risultato” cioè non si arriva mai alla meta, essa è sempre un po’ più in là rispetto al cammino fatto, è una ricerca continua.

E ancora: “Noi sentiamo di non essere migliori degli altri: ma forse più degli altri sentiamo il bisogno di salvarci, di uscire dalla distrazione e risolvere le molte crisi di indifferenza che l’ambiente scolastico ha contribuito a formare in noi.” Quindi dentro al mondo, in questo caso l’ambiente scolastico, ma con la coscienza che bisogna cercare altro.

Nella premessa agli atti, scrive: “Occorre un’idea per costruire, altrimenti ammassiamo dei ruderi. Non si può costruire nulla se non con un’idea precisa. Il prendere un’iniziativa è prendere coscienza di un valore ed agire per esso. È necessario, per la maturità, che il giovane abbia già ottenuto una preparazione tale, un criterio unitario che gli consenta di giudicare. All’espletamento di tale lavoro di formazione il giovane non perviene da sé, né in ciò viene aiutato dall’ambiente scolastico. È sorta in noi quindi l’esigenza che a questa lacuna supplisse un ambiente diversamente impostato dalla scuola, che cercasse di aiutarci nella necessaria verifica della tradizione cristiana (la cui importanza è tale per cui nessun uomo può inoltrarsi nella vita con lealtà senza prendere chiara posizione di fronte ad essa) seguendo il ritmo stesso della vita studentesca”.

Nella scuola quindi ma con altra coscienza, nel mondo quindi senza, dal mondo, assorbire acriticamente i criteri. Mi sembra chiaro.

Questo è il mio inizio con il professor Giovanni Riva. Oggi, nella coscienza di un cammino lunghissimo di cui non si intravede ancora il traguardo, cosa devo a Giovanni?

Ci ha insegnato a studiare proponendo, allora, vere e proprie revisioni culturali sulla letteratura, la storia, la geografia, le scienze; invitandomi e invitandoci a collaborare a un doposcuola in un quartiere marginale di Reggio Emilia da lui voluto e realizzato e anche in un tentativo di università popolare.

Ci ha insegnato a lavorare collaborando con lui nell’organizzare attività sia per studenti che per adulti, chiamandomi in seguito a fare segreteria per il movimento che poi avrebbe fondato.

Ci ha insegnato a rischiare quando lui ha iniziato in una canonica l’avventura di una scuola materna, “scuola materna Arca di Noè” senza spaventarsi delle difficoltà sia economiche che sociali e quando mi ha prospettato l’idea di abbandonare il mio lavoro per dedicarmi a un’opera che stava nascendo; o quando ha iniziato a Reggio Emilia la libreria “Nuova Terra” e la grande avventura di una casa editrice “Città Armoniosa” che certamente alcuni di voi, i più anziani, ricordano come uno strumento culturale eccezionale; o quando, più recentemente, ha fondato a Città del Messico una piccola e bella università, “ICTE”

Ci ha insegnato ad amare l’uomo e a dedicargli la vita quando è partito, appunto per Città del Messico, assieme alla sua famiglia, chiamato a insegnare filosofia e teologia ma chiamato anche a vivere la sua personale esperienza in Messico.

E ci ha insegnato la libertà che è la sintesi dell’amore per la vita, la mia e la tua, insieme.

Il Giovanni che abbiamo conosciuto in questi anni è il professore che con noi, allora studenti, ha lavorato nelle revisioni culturali e nell’impegno di presenza nelle scuole; è il poeta e scrittore riconosciuto tale anche nell’esclusivo ambiente letterario non solo italiano; è il filosofo e il teologo, sui cui discorsi e scritti stiamo oggi lavorando e meditando, che ha sviluppato allora il Centro Incontri Teologici, che ha insegnato in Messico fondando anche una facoltà di filosofia; è il cittadino e il protagonista nel mondo specie dove il bisogno e la sofferenza erano insopportabili.

La sua storia lo vede protagonista in varie parti del mondo.

In Spagna, al tempo del regime di Franco, dove aveva conosciuto e intrattenuto rapporti con intellettuali antifranchisti come Alfonso Comin e teologi come José María González Rúiz.

In Corea del Nord nel ‘71 dove andò invitato a visitare la realtà educativa e scolastica coreana e a seguito di quel viaggio pubblicò un libro “Andare a scuola in Korea”.

Nel 1985, come ho già citato si trasferisce in Messico e opera in varie città: Città del Messico, Cotzacoalcos, Villahermosa, insegnando e fondando gruppi di giovani e famiglie.

Dal Messico arrivare al Centro e Sudamerica il passo è breve: in Honduras dove oggi c’è una comunità di giovani, di famiglie e di docenti universitari e dove ha dato vita a una fondazione per l’aiuto ai poveri; in El Salvador dove un numeroso gruppo di giovani e famiglie, alcuni presenti qui a Tonalestate, testimoniano il suo carisma e operano in attività educative e sanitarie da lui fondate o incoraggiate e dirette specialmente ai bambini della strada e alle realtà marginali.

In Venezuela dove a Cabimas e Maracaibo e a Coro c’è oggi una comunità di adulti e professionisti che, avendolo incontrato, lavorano nel Paese secondo il suo stesso spirito.

In Giappone, principalmente a Nagoya e a Tokyo, dove Giovanni si recava spesso a tenere conferenze presso l’università e dove è nata una numerosa comunità della quale alcuni rappresentanti sono in questa sala e dove opera una ong “Olive Japan” da lui voluta e incoraggiata.

Tutto questo vale anche per Francia, Germania, Ungheria. Dove andava, là nasceva una comunità o una opera le quali raccoglievano attorno a sé persone di varie estrazioni, fedi e credo politico: una comunità di uomini innamorati degli uomini, dell’umanità, una comunità di uomini dedicati a un compito, specchio di un ideale vissuto.

La sua presenza non era feconda solo all’estero. Già accennavo alla scuola, al doposcuola, alla libreria, alla casa editrice. E potrei continuare perché in ogni città ha lasciato un segno: sto pensando a Reggio Emilia dove è vissuto, Agropoli, Roma, Venezia, Castelgrande. Un instancabile lavoratore, un instancabile missionario, un instancabile uomo di cultura e di lettere, un instancabile uomo dedicato agli altri uomini, specie a coloro che non hanno voce.

Permettetemi solo un brevissimo accenno a un’opera che mi è rimasta nel cuore e che se non definisce completamente, certamente fotografa la sua voglia di donarsi, di condividere con l’altro, di assumere su di sé, per quanto possibile, il dolore dell’altro. Siamo in El Salvador, agli inizi degli anni 90. Con gli immensi problemi causati dalla guerra civile, fame e morti, costituisce il Paolo Miki Center: è una casa aperta a las niñas de la calle perché possano avere un punto di riferimento sicuro. Lì, in questo Center, a queste adolescenti viene data la possibilità di lavarsi e di sfamarsi e di essere aiutati nelle loro esigenze più semplici; alcune di loro, dopo un primo periodo di rapporti saltuari, prendono confidenza con la struttura e gli operatori e, con loro, Giovanni inizia un percorso educativo, pieno di difficoltà poiché non hanno mai conosciuto l’affetto o la gratuità o, semplicemente, non hanno mai avuto qualcuno che si prendesse cura di loro. Questa iniziale opera per bambini della strada è stata il preludio, principalmente nel desiderio che giovani salvadoregni si dedicassero in gratuità ai piccoli più bisognosi, all’opera che oggi tutti conosciamo come Las Abejitas a Santa Tecla. È solo un esempio, a me particolarmente caro, di come dedicare la vita.

Ma riprendiamo. “Gioventù Studentesca”, della quale ho già accennato, si trasformò in seguito in “One Way”, unica via, e quindi in “Opera di Nàzaret” che sarà riconosciuta, nel 1999, dal Santo Padre, tramite il Pontificio Consiglio per i Laici, come Associazione Internazionale privata di fedeli, di diritto pontificio. Grazie all’insistenza di Sua Eccellenza Mons.Prigione, Arcivescovo e Nunzio Apostolico, ora emerito, in Messico, qui presente, delle qual cosa gliene siamo grati.

E come non citare un altro segno che Giovanni ci ha lasciato come modello per la nostra vita: l’aggregazione di coloro che hanno deciso di “vivere in radicalità, all’interno delle loro condizioni di stato di vita e di professione, lo spirito proprio dell’Opera di Nàzaret stessa, assumendo i consigli evangelici in dedizione e sequela di Gesù Cristo”.

Per capire quest’uomo, il suo guardare all’infinito e il suo desiderare di donarsi interamente agli uomini, vi leggo quanto da lui scritto sullo statuto dell’Opera di Nàzaret; descrive fedelmente e sinteticamente la sua vita: “Proposito dell’Opera di Nàzaret è la testimonianza, affinché il volto presente di Cristo, mediatore di quello del Padre e non mai dissociato dall’amore al destino di felicità degli uomini, venga incontrato da ognuno nella normalità degli ambienti, negli interessi dell’esistenza, nel mondo quotidiano, nelle varie professioni e nelle diverse necessità di uomini, di luoghi e di tempi. … Il fine primario. Nel quotidiano, i singoli si impegnano, con tensione missionaria, a che i loro normali ambienti di lavoro e di vita vengano intelligentemente penetrati, nei loro interessi e nelle loro dinamiche, da una coscienza tesa alla speranza dell’annuncio gioioso: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nàzaret» (Gv 1,45).

Il fine particolare. Nel quotidiano, il singolo accosta, in condivisione caritatevole, il bisogno e le esigenze degli uomini, affrontandoli anche, nei limiti delle proprie possibilità, con quell’operatività e con quell’organicità che sono esigite in funzione dell’attuazione di nuove opere sociali di misericordia spirituale e corporale…, “

Questo è il professor Giovanni Riva, che amando totalmente Gesù ha amato gli uomini.

Io ho avuto un grande dono, ovviamente condiviso con altri, ed è quello di averlo potuto “frequentare” molto, dono del quale oggi ne capisco appieno il valore e ne sento la mancanza. Ho potuto frequentarlo anche nei momenti di sua sofferenza: indimenticabile pienezza di umanità, di vita già tra le braccia di Gesù, di umiltà, quasi a scusarsi del suo stato.

Ciò che abbiamo vissuto e che ci portiamo nel cuore e che volgiamo continuare a vivere e a far crescere è un fatto straordinario seppur umile come umile è stato sempre Giovanni e come ha voluto riconoscerlo la Chiesa la quale, tramite Sua Eminenza il Cardinal Re, lo ha ricordarlo il 22 giugno con una messa celebrata nelle Basilica di San Pietro a Roma, nella ricorrenza del secondo mese della sua scomparsa.

Sono oltre tre mesi che Giovanni non è più con noi e, se da un lato mi sembra ieri che si parlava assieme, dall’altro mi sembra un’eternità di solitudine e a volte mi prende una sorta di rabbia: ho perso Giovanni che mi è stato padre per una vita. Sì, mi è stato padre, maestro e amico.

Ora, la consegna è quella di continuare nella via che Giovanni ha tracciato con costanza, abnegazione, rischio avendone presenti il proposito e il fine primario e particolare.

Giuseppe Staccia

Dal sito di Tonalestate : www.tonalestate.org

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