domenica 1 aprile 2012

Berliner Kindheit um neunzehnhundert

Tiergarten
Non sapersi orientare in una città non significa molto.




Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno.


Quest’arte l’ho appresa tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prima tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni. No, non le prime, poiché le precedette quell’altro che a esse è sopravvissuto.


La via verso questo labirinto, cui non è mancatra la sua Arianna, passava sul ponte Bendler, il cui dolce arco fu per me il primo pendio collinare. Non lontano da lì era la meta: Federico Guglielmo e la regina Luisa. Emergevano dalle aiuole su tondi piedestalli e parevano ammaliati dalle magiche curve che un corso d’acqua disegnava davanti a loro nella sabbia.


Più che ai regnanti, però, rivolgevo la mia attenzione ai piedistalli, perché le scene che vi erano rappresentate, pur non essendo chiari i riferimenti, erano più vicine. Che questo labirinto avesse una sua importanza, l’ho avvertito da sempre in quell’ampio e insignificante spiazzo che per nulla lasciava presagire come qui, solo a pochi passi dalla fila delle carrozze e delle vetture di piazza, dormisse la parte più misteriosa del parco.


Ne ebbi molto presto un segno. In quel punto, infatti, o non lontano, deve aver avuto la sua dimora quell’Arianna alla cui presenza per la prima volta avvertii ciò di cui solo più tardi appresi il nome: l’amore. Purtroppo nella sua sorgente compare la <> ; che si posò su di essa come algida ombra.


E così questo parco, che come nessun altro sembrava aperto ai bambini, per me era sbarrato da difficoltà e ostacoli insuperabili. Raramente distinguevo i pesci rossi nello stagno. Quante cose prometteva, col suo nome, il Hofjägerallee , e quanto poche ne manteneva. Quante volte perlustrai invano la boscaglia in cui si trovava un chiosco dalle torrette rosse, bianche e blu in stile scatola di costruzioni Anker. Inconsolabile a ogni primavera torna il mio amore per il principe Luigi Ferdinando, ai cui piedi c’erano i primi crochi e i primi narcisi. Un corso d’acqua che mi separava da loro me li faceva apparire così intoccabili come se fossero stati sotto una campana di vetro. Così, in quest’algida bellezza doveva poggiare la natura principesca, e compresi perché Luise von Landau, con la quale fino alla sua morte aveva condiviso la cerchia, doveva avere dimora lungo il Lüzsowufer di fronte al piccolo tratto di vegetazione selvaggia i cui fiori vengono bagnati dalle acque del canale.


Più tardi scoprii nuovi cantucci; di altri perfezionai la conoscenza. Eppure su questo nessuna ragazza, nessuna esperienza, nessun libro potè dirmi alcunchè di nuovo. Quando perciò, trent’anni più tardi, una persona esperta dei luoghi, un contadino di Berlino , si prese cura di me per fare ritorno dopo lunga separazione comune dalla città, i suoi percosrsi solcarono questo parco in cui egli seminava le semente del silenzio. Avanzava lungo i viottoli, e ognuno si faceva scosceso. Conducevano giù, se non alle Madri di ogni esistere, certamente a quelle di questo parco. Nell’asfalto che calpestava, i suoi passi destavano un’eco. La luce a gas che illuminava il nostro selciato spandeva su quel terreno un chiarore ambiguo.


Le piccole scale, gli atri a colonnato, i fregi e gli architravi delle ville del Tiergarten – fummo noi a prenderli per la prima volta in parola. Soprattutto le trombe delle scale che con le loro vetrate erano rimaste le stesse, anche se all’interno, dove si abitava, molto era stato cambiato. Ricordo ancora i versi che dopo la scuola colmavano gli intervalli del mio battito cardiaco quando salendo le scale riprendevo fiato. Mi si presentavano in una luce soffusa dalla vetrata da cui, sospesa come la Madonna Sistina, una donna fuoriusciva da una nicchia reggendo in mano una corona. Sollevando con i pollici le cinghie della cartella che avevo in spalla leggevo:“Il lavoro è il decoro dell’uomo La prosperità il premio della fatica”. In basso la porta si richiudeva con un sospiro, come uno spettro che fa ritorno nella sua tomba. Fuori forse pioveva. Una delle variopinte vetrate era rimasta aperta, e accompagnati dal ticchettio della pioggia si continuava a salire le scale.


Fra le cariatidi e gli atlanti, fra i putti e le pomone che allora mi avevano osservato, le più care mi erano ora le polverose figure della famiglia dei numi tutelari che proteggono l’ingresso nella vita e nella casa. Ben sanno infatti cosa significhi attendere.


E così per loro era lo stesso aspettare un estraneo, il ritorno delle antiche divinità, o il bambino che trent’anni prima, con la sua cartella, era passato accanto al loro piede. Nel loro segno il vecchio Westen si trasformò nel Westen antico dal quale ai naviganti che prima di ormeggiarsi al ponte di Ercole, lentamente fanno risalire lungo il Landwehrkanal il vascello con i pomi delle Esperidi, giungono i venti di ponente. E come nella mia fanciullezza, l’idra e il leone nemeo ritrovavano il loro posto nella selvaggia vegetazione intorno al Großer Stern .




Walter Benjamin

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