venerdì 27 gennaio 2012

Le Théâtre et le Risque: Jean Dasté



"Aujourd'hui l'audiovisuel permet de communiquer avec le monde entier, mais de moins en moins avec ses voisins. Or, le théâtre rassemble: il est au service de l'homme, de ses aspirations, de ses passions, de ses contradictions, de son besoin de liberté, de son mystère devant l'inconnu."


Jean Dasté

Photographies d'Ito Josué: des spectatrices et des spectateurs de Jean Dasté à Saint Etienne dans les années 1950

mercoledì 25 gennaio 2012

Invitación del Centro Cultural One Way

Estimado amigo(a):
El Centro Cultural One Way, continuando con el ciclo de conferencias sobre el tema “Auri Sacra Fames” (El hambre sagrada del oro), te invita a participar a su próximo evento a realizarse con la presentación del documental: "Las masacres de el Mozote", de los autores Bernat Camps, Daniel Valencia Caravantes y Marcela Zamora, periodistas de El Faro.net, el día jueves 26 de enero de 2012 a las 6:30 p.m, en el auditorio del Museo Nacional de Antropología "Dr. David J. Guzmán", (Muna).




martedì 24 gennaio 2012

Liberté, Egalité, Fraternité



En effet on a déclaré bien vite (après Sieyès) : liberté, égalité, fraternité. Très bien. Qu’est la liberté ? La liberté. Quelle liberté ? La même liberté pour tous de faire ce qu’on veut, dans les limites de la loi. Quand peut-on faire ce qu’on veut ? Quand on a un million. La liberté donne-t-elle un million à chacun ? Non. Qu’est-ce qu’un homme sans un million ? Un homme sans un million n’est pas celui qui fait ce qui lui plaît, mais celui dont on fait ce qui plaît. Que s’ensuit-il ? Il s’ensuit qu’en dehors de la liberté il y a encore l’égalité, notamment l’égalité devant la loi. De cette égalité devant la loi on ne peut dire qu’une seule chose : c’est que dans la forme où on l’applique actuellement, tout Français peut et doit la considérer comme une injure personnelle. Que reste-t-il de la formule ? La fraternité. […] L’homme occidental parle de la fraternité comme d’une grande force motrice de l’humanité et il ne se doute pas que l’on ne peut y atteindre si elle n’existe pas déjà en réalité. Que faire ? Il faut créer la fraternité à tout prix. Or, il arrive qu’on ne peut pas créer la fraternité parce qu’elle se crée elle-même, parce qu’elle est une donnée, parce qu’elle est une chose de nature. Dans la nature française et, en général, dans la nature occidentale, on ne l’a pas trouvée ; ce qu’on a trouvé c’était le principe de l’individu, de la conservation de soi poussée très loin, de la vie à son propre compte, de l’autonomie de son Moi propre, de l’opposition de ce moi à toute la nature et à tous les autres hommes […].


Fiodor Dostoïevski, Le Bourgeois de Paris

Sketchbook: Open mind, D. Soto


domenica 22 gennaio 2012

Riniziando la settimana



100 YEARS OF SWISS GRAPHIC DESIGN



100 Years of Swiss Graphic Design showcases the diversity of contemporary visual culture as well as revealing the fine lines of tradition that extend between works from different epochs. The show reveals that, while it is impossible to identify a single individual style in Swiss graphic design, a certain common approach is certainly to be found. The striking quality of the works, the way in which they are securely rooted in handcraft, as well as precision and reduction to essentials are the characteristics of this approach. Graphic works from Switzerland reflect international tendencies as well as local characteristics. They are accompanied by irony and wit.
This exhibition is a colorful cross-section through one hundred years of visual everyday culture. The chronological link is formed by a continuous frieze made up of 100 posters from the period between 1912 and 2012. The poster has been able to retain its relevance as a medium over this entire period, so that the range extends from classic masters of poster art to designers from the younger generation. The show reveals that, despite changes in needs, aspirations and techniques over the course of time, graphic design always circles around similar themes: the field of tension between art and graphic design is manifested, the dialogue between graphic design and photography…
February 10 – June 3, 2012
Museum für Gestaltung, Zürich

Fabrizio De André (Genova, 1940 - Milano, 1999)

“Lui è il Leoardo della situazione, lui deve dare i tocchi, la struttura (...) quelli che gli sono vicini, i bravi artigiani, devono fare il resto. Ha saputo quindi trasformare e trasportare la funzione un po’ pittorica del Rinascimento in musica del ‘900”. Quello così resogli da Roberto Vecchioni, è il miglior omaggio possibile a Fabrizio De André, tra le figure di maggiore rilievo nella scena canora italiana. Nato da famiglia benestante, sin da giovanissimo si ribella ai propri privilegi: a 18 anni scappa di casa e, per qualche tempo, va a vivere nei carrugi della città vecchia, a contatto con quell’umanità toccante e reietta che poi metterà al centro di tante sue composizioni. L’interesse per la scrittura di canzoni s’impone nella prima metà degli anni ‘60, prendendo forma in brani che si chiaman “La guerra di Piero”, “La ballata del Michè”, “Amore che vieni amore che vai”, “La ballata dell’amore cieco”, “La ballata dell’eroe”: nel ‘66, essi vengono raccolti in un LP, “Tutto Fabrizio De André”. Nel disco c’è pure “La canzone di Marinella” che, portata al successo da Mina, dà a Fabrizio l’indipendenza economica e la possibilità di dedicarsi, a tempo pieno, alla propria attività. Nasce, così, “Volume I” (1967), con i futuri classici “Via del Campo”, “Bocca di rosa” e “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” (quest’ultima firmata assieme all’amico Paolo Villaggio); “Tutti morimmo a stento” (1968), uno dei primi concept album usciti da noi; “Volume III” (1968), con la provocatoria “Il testamento” ed un adattamento da Georges Brassens, “Il gorilla”; “Nuvole barocche” (1969), dove compare uno dei suoi pezzi più intensi di sempre, l’amara “Canzone dell’amore perduto”. La formula del 33 giri a tema viene ripresa per “La buona novella” (1970, ove la figura del Cristo diviene quella di un rivoluzionario), che si chiude con la superlativa “Il testamento di Tito”, composta sulla melodia di “Blowin’ in the wind” di Dylan. Esiti ancora più alti quelli di “Non al denaro non all’amore né al cielo” (1971), ispirata alla “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters reinventando in toto le poesie scelte. Una battuta d’arresto la segna “Storia di un impiegato” (1973), un po’ fuori dal mondo dell’artista, forse perché troppo direttamente politicizzato (“La canzone del Maggio”, che prende spunto dal ‘68 francese). Gli anni ‘70 vedono il nostro attraversare una fase di transizione:  pure se son valide le versioni di Cohen (“Suzanne”, “Giovanna D’Arco”), Dylan (“Via della povertà”) e Brassens (“Delitto di paese”) contenute in “Canzoni” (1974; vi collabora un giovane Francesco De Gregori), “Volume 8” (1975) staziona però fra manierismo e ritualità, malgrado vi compaiano “Amico fragile” e “La cattiva strada”. E’ solo con “Rimini” (1978) che l’artista genovese ritrova la forma migliore: di seguito, egli s’imbarca in una fortunata tournée con la PFM, dalla quale vengono tratti due live (1979-80). In seguito, “Fabrizio De André” (1981, noto pure come “indiano” per la sua copertina) è, magari sottovalutato, tra le cose sue più alte, inno sia al popolo sardo sia a quello dei nativi americani. Di qui in avanti, la produzione di De André diventa più sporadica, ma gli esiti si fanno mirabili: “Creuza de mä” (1984), eseguito in “lingua genovese”, è un riconosciuto capo d’opera (“dobbiamo essere riconoscenti a Fabrizio De André per il fatto che un poeta del suo livello abbia scelto la ‘pop music’ come mezzo d’espressione”, dichiara un guru della musica d’autore come David Byrne); “Le nuvole” (1990), realizzato come il precedente con Mauro Pagani, trova i propri atout ne “La domenica delle salme” ed in “Don Raffae’”; a conclusione, “Anime salve” (1996) è lavoro testamentario ed al tempo medesimo tutto calato nel presente, osservato con occhi disillusi e dolenti (si veda la title track; e la magia di “Ho visto Nina volare”, l’incanto di “Smisurata preghiera”, la cruda tenerezza di “Princesa”). In mezzo, ancora molte altre cose. Ad esempio, un doppio dal vivo (“Concerti”, 1991), tra i rari della sua carriera, basato principalmente su “Le nuvole”, ma che si spinge fino ad interessanti recuperi dal passato remoto (“La canzone di Marinella”, “Il testamento di Tito”,  “Il gorilla”). Un romanzo, scritto a quattro mani con Alessandro Gennari, “Un destino ridicolo” (Einaudi), storia di un furto organizzato da un trio di ladri improbabili. E poi tanti, tanti concerti, quasi a voler emendarsi della sua proverbiale ritrosia: sino all’agosto del 1998, quando un malore l’obbliga a fermarsi. Di lì a poco,  fra il 10 e l’11 gennaio 1999, la morte.

via Italica 

venerdì 20 gennaio 2012

Fondamenta degli Incurabili


"In questa città si può versare una lacrima in diverse occasioni. Posto che la bellezza sia una particolare distribuzione della luce, quella più congeniale alla retina, una lacrima è il modo in cui la retina - come la lacrima stessa - ammette la propria incapacità di trattenere la bellezza. In generale, l'amore arriva con la velocità della luce; la separazione con quella del suono. Ciò che inumidisce l'occhio è questo deterioramento, questo passaggio da una velocità superiore a una inferiore.

Poiché siamo esseri finiti, una partenza da questa città sembra ogni volta definitiva: lasciarla è un lasciarla per sempre. Perché con la partenza l'occhio viene esiliato nella provincia degli altri sensi: nel migliore dei casi, nelle crepe e nei crepacci del cervello.

Perché l'occhio non s'identifica col corpo, ma con l'oggetto della propria attenzione. E per l'occhio la partenza è un processo speciale, legato a ragioni puramente ottiche: non è il corpo a lasciare la città, è la città ad abbandonare la pupilla.

Allo stesso modo il commiato della persona amata provoca dolore, e soprattutto un commiato graduale, chiunque sia a partire e per qualsiasi motivo. Nel mondo in cui viviamo, questa città è il grande amore dell'occhio. Dopo, tutto è delusione.

Una lacrima anticipa quello che sarà il futuro dell'occhio."

Iosif Brodskij 'Fondamenta degli Incurabili'

Esta SOPA no la tomamos! (Stop Online Piracy Act)


El Stop Online Piracy Act (español: Cese a la piratería en línea) también conocido como Ley SOPA o Ley H.R. 3261; es un proyecto de ley presentado en la Cámara de Representantes de los Estados Unidos el 26 de octubre de 2011 por el representante Lamar S. Smith, y un grupo de copatrocinadores bipartidario formado inicialmente por 12 miembros. El proyecto de ley extiende las competencias del Departamento de Justicia de los Estados Unidos y amplía las capacidades de los propietarios de derechos intelectuales para combatir el tráfico online de contenidos y productos protegidos, ya sea por derechos de autor o de propiedad intelectual. Entre estos se pueden contar, por ejemplo, música o canciones, películaslibros, obras artísticas y productos copiados o falsificados que no tributan las correspondientes tasas a los propietarios de sus derechos de autoría o invención.1 Actualmente, y antes de ser presentada ante el Comité Judicial de la Cámara (de Representantes), presenta una estructura similar al Acta PRO-IP o por su acónimo en Inglés PIPA del año 2008 y su correspondiente proyecto de ley ante el Senado el Acta PROTECT IP (Acta de protección de propiedad intelectual).2
El proyecto de ley originalmente propuesto permite que tanto el Departamento de Justicia de los Estados Unidos, como los propietarios de derechos intelectuales, puedan obtener órdenes judiciales contra aquellos sitios de Internet que permitan o faciliten la violación de los derechos de autor. Dependiendo de quién sea el que solicite la orden judicial, las acciones previstas contra el sitio web podrían incluir:
  • Restricción al acceso a empresas que brindan un servicio de facilitación de pago tales como PayPal o que ofrecen dinero a cambio de colocar publicidad online.
  • Restricción en los buscadores que vinculan con tales sitios.
  • Requerimiento a los proveedores de internet, para que bloqueen el acceso a tales sitios.
El proyecto de ley convierte en un crimen al streaming no autorizado de contenidos protegidos por copyright (derecho de copia), y prevé una pena máxima de cinco años de prisión por cada diez piezas musicales o películas descargadas dentro de los seis meses desde su estreno. El proyecto además brinda inmunidad a todos aquellos proveedores de Internet que voluntariamente lleven a cabo acciones contra tales sitios haciendo además responsable al sitio web infractor de cualquier daño producido al titular de los derechos, incluso sin tener que demostrarlo.3
Quienes proponen la ley afirman que protege el mercado de la propiedad intelectual y su correspondiente industria, trabajos e ingresos, y que es necesaria para reforzar la aplicación de las leyes de derechos de autor, en particular contra los sitios web extranjeros.4 Citan ejemplos como el del acuerdo judicial de 500 millones de dólares al que llegó Google con el Departamento de Justicia por su papel en una campaña publicitaria dirigida a los ciudadanos estadounidenses que alentaba a los consumidores a comprar drogas de prescripción ilegal en farmacias online de Canadá. Los opositores argumentan que la ley infringe los derechos de la Primera Enmienda, que es censura en Internet,5 que lisiará a Internet,6 y será una amenaza para la denuncia de irregularidades y otras muestras delibertad de expresión.7
El Comité Judicial de la Cámara mantuvo audiencias sobre la ley SOPA el 16 de noviembre y el 25 de diciembre de 2011. El comité tiene programado continuar con el debate cuando el Congreso retorne de su receso invernal.8

Vincent Van Gogh, Los descargadores en el Arles, 1888



Entregarse a la contemplación de la pintura exige una cierta docilidad. Es necesario permitir que el acontecimiento que tenemos delante surta sus efectos. En muchos sentidos es una actitud lejana de nuestra cotidianidad, o mejor dicho de la cotidiana alienación en que nos sumergimos. Por lo visto necesaria, esta alienación nos guarda de dosis de dolor y sufrimiento que serían un desgarramiento continúo en la visión de todas las injusticias que se cometen con o sin nuestro consentimiento, pero que parecen no poder ser evitadas. De ahí la dificultad de entregarse a otro: cualquier otro es signo de avidez y prevaricación. Antes de nada, sospechamos del otro.
Pero mirando los paisajes de Van Gogh, como Los descargadores en el Arles de 1888, somos devueltos a una confianza de origen. Una especie de firme reposo invade la atmósfera, es el reposo de un ritmo humano, que sucede al trabajo. El cielo crepuscular se proyecta sobre el pueblo reflejado sobre el agua: en más de un sentido el agua y el aire son semejantes, se acompañan en su inmensidad de tonos claros. Las sombras son los elementos sólidos de la composición, lo mismo que los edificios y los hombres que recogen la carga de las barcas. Es un juego de luces y sombras que sorprende por su ausencia de moralismo.
Sin embargo, no es el color únicamente el elemento que hace posible la armonía, el movimiento se sugiere por el reflejo de las luces sobre el agua, describiendo un río calmo apenas ondulante, efecto que es sugerido por una pincelada horizontal, breve, mientras que en la parte superior la pincelada denota los girones de nubes que se han desagarrado.
Si en algunos cuadros del pintor holandés encontramos una calma apacible, en este caso nos hallamos delante de un espasmo de conflicto con la nube desapareciendo y el sol mostrando su ardor mientras decae. Una especie de lucha final ante el inminente desfallecimiento que acompaña la jornada diaria.
Además de la idea de ritmo vital, está presente la idea de destino. Tanto el río como el cielo nos muestran la presencia de un misterio insondable, pero presente, cercano: a pesar de la pasada lucha, no es terrible ni angustiante. El cuadro invita a arrojarse de inmediato en los brazos de esa realidad, hundir el dedo, como dijo Artaud, con un irrefrenable deseo de violenta regresión a la infancia. También nosotros desearíamos fundirnos en ese paisaje, encontrar nuestro lugar en el amplio panorama indescifrable que nos rodea, con la confianza de que es compañero y no verdugo.

martedì 17 gennaio 2012

Lettera agli americani (I)




"Americani,

dovete ammettere che il superfluo alleggerisce l'anima. Il lusso é una nobile virtù che non va confusa con il comfort. Voi avete il comfort. Vi manca il lusso. Il lusso che io raccomando non ha niente a che vedere con i soldi. Non si compra. E' la ricompensa per coloro che non temono le scomodità. Ci impegna di fronte a noi stessi. E' il nutrimento dell'anima. Fa si che un giovane si svegli la mattina in un profondo stato di inquietudine e senza ombra di amarezza né di disgusto."

Ipse Dixit: A. De Saint Exupery

«Ser humanos significa ser responsables. Significa sentir vergüenza en presencia de una miseria aun si no parece depender de nosotros. Sentir que colocando mi propia piedra, se contribuye a construir el mundo».

giovedì 12 gennaio 2012

Dodici come i mesi: Cantata elettorale

Se fossi al parlamento
io non sarei contento
di come van le cose,
di spine senza rose.

Se fossi in senatore,
camminerei per ore
su e giù per la città.
Saprei come si sta.

Farei un bel decreto
per mettere un divieto:
« A chi ha la faccia scura
sia fatta una puntura».

Se fossi il presidente,
radunerei la gente:
« Che vita è questa qua
senza comunità?».

Farei, se fossi morto,
un testamento corto:
«Qui in cielo non si viene,
se giù non si fa il bene».

G.R., Città Armoniosa, 1977

FOTO/GRÁFICA






FOTO/GRÁFICA
une nouvelle histoire des livres de photographie latino-américains
“(…) nous avons pu constater le manque crucial d’une cartographie des livres publiés au 20ème siècle sur le continent. Une investigation rigoureuse devait compenser ce silence par un sauvetage systématique des œuvres d’une valeur incontestable, résultat d’une alchimie complexe entre de nombreux ingrédients : qualité des images, de la séquence, du texte, de la mise en page, de la reliure, de l’impression etc… La recherche portait exclusivement sur des livres de photographies édités en Amérique Latine par des auteurs latino-américains impliqués dans la réalisation de leur ouvrage.
En trois ans, dans 19 pays de Cuba à la Patagonie, nous avons interrogé photographes, graphistes, collectionneurs, chercheurs, éditeurs, et passé au crible leurs bibliothèques et leurs archives (…)”

20 janvier – 08 avril 2012
Le Bal, Paris





via manystuff

Street Art in New Orleans


tipos latinos 2012 - call for entries

 
typo/graphic posters proudly invites you to support and promote the 5th Biennial of Latin American Typography - Tipos Latinos 2012
 
tipos latinos 2012 - quinta bienal de tipografia latinoamericana
 
 
Tipos Latinos is an international network initiative focused on fostering and developing typography in Latin America. It currently has committees and delegates based in 13 countries – Argentina, Brazil, Bolivia, Chile, Colombia, Cuba, Ecuador, Guatemala, Mexico, Paraguay, Peru, Uruguay and Venezuela – where the biennial exhibition is held simultaneously. Established in 2004 – under the name Letras Latinas – the Tipos Latinos Biennial of Latin American Typography also comprises an extensive program of lectures, workshops and guided tours, promoting communication design, typography and cultural exchange among Latin American professionals.
 
The Tipos Latinos 2012 Call for Entries – for projects completed between April 2010 to February 2012 – is already available (in Spanish and Portuguese) on
www.tiposlatinos.com. The deadline is February 23rd 2012 and submissions are free of charge. Typeface design projects should have been developed by designers from Latin America; however, the category for communication design projects that feature substantial usage of Latin American typefaces – such as logos, packaging, ads, editorial projects etc – is open to all nationalities.
 
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Il était une fois l’occident




" La domination de l’Occident, de son économie, de ses sciences et de sa culture nous semble aujourd’hui si normale que beaucoup d’entre nous ont du mal à imaginer qu’autrefois il allait autrement. L’ascension de l’Europe a commencé au XVe siècle, mais ce n’est qu’avec la révolution industrielle, au début du XIXe siècle, qu’elle s’est accélérée. Jusqu’alors les centres du monde étaient ailleurs : vers l’an mille les scientifiques arabes étaient très en avance sur ceux du Nord. La Chine compte des villes de plus de 1 million d’habitants depuis le IXe siècle. Plus d’un demi-siècle avant Christophe Colombe, l’amiral Zheng He explorait les côtes de l’Afrique et de la péninsule Arabique et, face à sa flotte imposante, les caravelles de notre explorateur génois auraient eu l’air de frêles esquifs.
(…)
La notion de « modernité » n’est plus automatiquement associée à des valeurs comme celle de la liberté d’opinion. Pékin montre que la réussite économique ne mène pas nécessairement à une réforme de la démocratie. Ce modèle nous inquiète – en Afrique beaucoup d’Etats sont sérieusement tentés d’emboîter les pas aux Chinois plutôt que de continuer de laisser l’Occident leur faire la leçon sur la question des droits de l’homme. Nous croyons que notre vision du monde est absolue, intemporelle. Nous considérons la tolérance, par exemple, comme une invention occidentale des temps modernes alors qu’au Moyen Age les musulmans qui dominaient la péninsule Ibérique, autorisaient la liberté de culte bien plus que leurs voisins chrétiens. L’ombre que nous faisons obscurcit notre vision de l’avenir ».
Marc Goergen
Stern, Hambourg

martedì 10 gennaio 2012

Delitto e Castigo, estratto


«Parlo seriamente, credetemi...
Immaginate, Sònja, di aver potuto conoscere in anticipo tutte le intenzioni di Lùžin, di aver potuto sapere (con sicurezza voglio dire), che in tal modo sarebbero stati completamente rovinati Katerìna Ivànovna e i bambini, e anche voi per giunta (visto che non vi considerate nulla,
ho detto per giunta). E anche Pòleèka... perché anche lei prenderà la stessa strada. Be', ecco: se la decisione, d'un tratto, fosse rimessa a voi: se tocchi a lui vivere, oppure tocchi a loro, cioè se Lùžin debba vivere e fare le sue porcherie, e Katerìna Ivànovna debba morire... Che cosa
decidereste: chi di loro dovrebbe morire? Ve lo
domando.»
Sònja lo guardò inquieta: le era parso di udire qualcosa di strano in questo discorso esitante, e preso così alla larga.
«Lo sapevo che mi avreste domandato qualcosa di simile,» disse, fissandolo con uno sguardo scrutatore. «Va bene, sia pure; ma come decidereste?»
«Perché mi domandate una cosa che non può essere?» rispose Sònja con ripugnanza.
«Allora, è meglio che viva Lùžin e faccia le sue porcherie? Non avete il coraggio di decidere nemmeno questo?»
«Ma io non posso conoscere le intenzioni della Divina Provvidenza... Perché voi mi domandate ciò che non si deve domandare? Perché mi fate delle domande inutili? Come è possibile che ciò dipenda dalla mia decisione? E chi mi ha dato il potere di giudicare quali persone debbano vivere e quali no?»
«Se mettiamo in mezzo la Divina Provvidenza, allora non c'è più niente da fare,» brontolò Raskòlnikov acidamente. «Ditemi piuttosto apertamente che cosa volete!» esclamò
Sònja con pena. «Di nuovo, state portando il discorsoverso qualcosa... Possibile che siate venuto solo per tormentarmi?»
Non resse, e a un tratto scoppiò a piangere amaramente. Egli la guardava in preda a una cupa angoscia. Passarono forse cinque minuti. «Hai ragione, Sònja,» disse alla fine, piano,Raskòlnikov.
Era cambiato di colpo; il suo tono di artificiosa sfrontatezza e di sfida impotente era svanito. Perfino la sua voce s'era improvvisamente affievolita. «Io stesso, ieri, ti ho detto che non sarei venuto a chiederti perdono, e invece ho quasi cominciato col chiedere perdono...
Quello che ho detto di Lùžin e della Divina Provvidenza, lo dicevo per me... Era un modo di chiedere perdono, Sònja... Fece per sorridere, ma in quel pallido sorriso c'era qualcosa di scialbo e di sfuggente. Chinò la testa e si coprì il viso con le mani. D'un tratto, un'improvvisa sensazione di acre odio contro Sònja gli invase il cuore. Sorpreso e spaventato di questa sensazione, sollevò il capo di colpo e la guardò fissamente; ma incontrò lo sguardo di lei, inquieto, tormentato, premuroso, nel quale si leggeva l'amore, e il suo odio svanì come un fantasma. Era qualcos'altro:
aveva scambiato un sentimento per un altro. Significava una sola cosa: che quel momento era arrivato. Di nuovo si nascose il viso con le mani e chinò la testa. A un tratto impallidì, si alzò dalla sedia, guardò Sònja e, senza dir nulla, andò a sedersi macchinalmente sul letto.
Come sensazione, quel momento somigliava terribilmente a quello in cui s'era trovato dietro la,vecchia, dopo aver già sfilato la scure dal cappio, e aveva sentito che ormai «non c'era più un istante da perdere».
«Che avete?» domandò Sònja, sempre più impaurita. Egli non riuscì a pronunziare una sola parola. Non era certo così che s'era proposto di comunicare la cosa, e neanche lui capiva che cosa gli stesse succedendo. Sònja gli si avvicinò pian piano, gli si sedette accanto sul letto e
restò Iì in attesa, senza levargli gli occhi di dosso. Il cuore le batteva forte, e a tratti si fermava. La situazione divenne insopportabile: egli girò verso di lei un viso mortalmente pallido; le labbra gli si storsero impotenti, incapaci di pronunziare una sola parola. Il cuore di Sònja s'empì di terrore.
«Che avete?» ripeté, scostandosi un po' da lui. «Niente, Sònja. Non devi aver paura... Sono tutte
sciocchezze! A pensarci bene, sono davvero sciocchezze,» mormorava Raskòlnikov con l'espressione di uno che delira e non sa quel che dice. «Vorrei proprio sapere perché son venuto qui a tormentarti...» aggiunse a un tratto, guardandola. «Davvero... Perché? Continuo a
domandarmelo, Sònja...» Se l'era domandato, forse, un quarto d'ora prima; ma adesso parlava in uno stato di completa prostrazione, di semincoscienza, e con un tremito incessante in tutto il
corpo. «Come vi torturate!...» disse Sònja con pena, osservandolo attentamente.
«Sciocchezze, solo sciocchezze!... Senti, Sònja,» e qui, chissà perché, sorrise per un paio di secondi d'un sorriso lieve, incolore, «ricordi quel che volevo dirti ieri?»
Sònja aspettava con ansia. «Nell'andar via, ti ho detto che forse ti salutavo per sempre, ma che, se fossi tornato oggi, ti avrei detto... chi ha ucciso Lizavèta.»
Un forte tremito la scosse tutta. «Ecco, sono venuto a dirtelo.»
«Ma allora parlavate sul serio, ieri...» sussurrò lei a stento. «Come fate a saperlo?» gli chiese poi in fretta, tornata in sé di colpo; e cominciò a respirare affannosamente. Il suo viso si faceva sempre più pallido.
«Lo so.»
Lei non parlò per un minuto. «Lui lo hanno trovato?» chiese timidamente. «No, non l'hanno trovato.» «E allora, come fate a sapere questa cosa?» chiese di nuovo Sònja, con voce appena percettibile, dopo un altro minuto di silenzio.
Raskòlnikov si girò verso di lei e la guardò fissamente. «Indovina,» disse con lo stesso sorriso storto e scialbo.
Il corpo di lei fu scosso come da una convulsione.

sabato 7 gennaio 2012

Dibújame un Cuento en el CCET, Tegucigalpa (hasta el 15 de enero!)

No pierdas la oportunidad de asistir a esta excelente exposición de Arte, Gráfica e Ilustración!
DaSeyn se las recomienda vivamente...

Buscando el norte

Las ilustraciones de Cecilia Afonso Esteves

La hormiga viajera

Javier Olivares

Perros de la calle

Pablo Amargo

Un regalo del cielo

Elena Odriozola

El soldadito Salomón

Javier Zabala


Las ilustraciones de Dibújame un cuento ya narran sus historias en el Centro Cultural de España en Tegucigalpa. Allí permancerán hasta el 15 de enero y, por el momento, como asegura Sabela Mendoza, de I con i, ya ha generado mucha expectación. Dibújame un cuento ocupa en esta sede un total de tres salas, así como un rincón para coloquios y la presencia de los volúmenes protagonistas de la muestra en su biblioteca. Además, ya os contamos que están previstas varias actividades destinadas a que los más pequeños se contagien del amor por las lecturas y las ilustraciones.



La Ciudad: Miedo y deseo. Refifi entre las mujeres

Ipse Dixit: Stephen Hawing

"The greatest enemy of knowledge is not ignorance, it is the illution of knowledge"




venerdì 6 gennaio 2012

L’Hommage à Delacroix. Fantin-Latour, Manet, Baudelaire


Paris, musée Eugène Delacroix, du 7 décembre 2011 au 19 mars 2012.
1. Henri Fantin-Latour (1836-1904)
Hommage à Delacroix, 1864
Huile sur toile - 160 x 250 cm
Paris, Musée d’Orsay
Photo : RMN/Hervé Lewandowski
Il est toujours fascinant d’entrer dans le processus créateur d’une œuvre. Le délicieux petit musée Eugène Delacroix présente, conçue par son directeur, Christophe Leribault, commissaire de la manifestation, une très intéressante exposition-dossier autour de l’Hommage à Delacroix (ill. 1) rassemblant, à côté de l’huile sur toile de 1864, études au crayon ou au fusain, esquisses à l’huile ou au crayon graphite et à la plume, en tout seize travaux préparatoires qui constituent ce qu’il convient d’appeler « la fabrique de l’Hommage ». Celle-ci, réservée à la salle qui fut l’atelier de Delacroix [1], est au cœur d’une enquête qui présente autour des relations des « modernes » avec Delacroix, la « Société des Trois » (Fantin-Latour, Whistler et Alphonse Legros, tous trois présents sur l’Hommage), puis l’importance de Manet dans cet hommage, avant de s’achever par « D’un hommage l’autre » qui s’attache à deux œuvres : L’Immortalité de Fantin-Latour et le Monument à Eugène Delacroix de Jules Dalou. Exposition riche et passionnante de génétique picturale : autour d’une figure, d’un sujet, tout ce qui peut être dit et montré [2], l’est.
2. Frédéric Bazille (1841-1870)
L’Atelier de la rue de Fürstenberg, 1865-1866
Huile sur toile - 80 x 65 cm
Montpellier, musée Fabre
Photo : Musée Fabre/Frédéric Jaulmes
Cet Hommage a une origine extra-picturale : revenant de l’enterrement de Delacroix en cette journée d’été du 17 août 1863, Baudelaire, Manet et Fantin-Latour sont choqués par la tiédeur dont font preuve les autorités à l’égard du grand peintre de la génération romantique. Certes, ce dernier avait expressément demandé que tout fut simple et sans ornement [3]. Mais était-ce raison pour rendre un hommage officiel a minima – qui plus est accompagné d’un discours de Jouffroy au nom de l’Académie – plus que tendancieusement distant à l’égard du défunt ? Les trois amis décident donc de répliquer par un acte fort qui « manifesterait au cœur du Salon la reconnaissance de la voie illustre ouverte par Delacroix à un art exigeant et authentique » [4] Baudelaire soumet l’idée d’un tableau où son ami Delacroix – « celui que j’ai tant aimé, celui qui a daigné m’aimer et qui m’a tant appris » ainsi qu’il devait le dire lors d’une conférence prononcée à Bruxelles le 2 mai 1864 [5] – figurerait entouré des artistes, peintres, écrivains et musiciens qui l’avaient inspiré. Fantin-Latour a conservé cette liste écrite de la main de Baudelaire, lui adjoignant en marge « De Baudelaire / pour mon tableau / A Delacroix ». Les noms qu’avait rapidement jetés sur le papier Baudelaire étaient ceux de Raphaël, Michel-Ange, Rubens, Véronèse, Rembrandt, Vélasquez, Goethe, Byron, Shakespeare, Arioste, Dante, Haydn, Beethoven, Mozart et Weber [6].
3. Henri Fantin-Latour (1836-1904)
Etude pour l’ "Hommage à Delacroix”, 11 septembre 1863
Crayon, graphite, plume et lavis - 21,1 x 28 cm
Paris, Musée d’Orsay
Photo : Daniel Couty
4. Henri Fantin-Latour (1836-1904)
Etude pour l’“Hommage à Delacroix”, 13 septembre 1863
Fusain - 37 x 47 cm
Paris, musée d’Orsay
Photo : Daniel Couty
5. Henri Fantin-Latour (1836-1904)
Esquisse pour l’“Hommage à Delacroix”
Huile sur toile - 25,5 x 26 cm
Paris, musée Eugène Delacroix
Photo : RMN/Harry Bréjat
6. Henri Fantin-Latour (1836-1904)
Etude pour l’"Hommage à Delacroix", 27 janvier 1864
Crayon graphite - 10 x 15,1 cm
Paris, musée d’Orsay
Photo : Daniel Couty
7. Henri Fantin-Latour (1836-1904)
Hommage à Delacroix, 27 janvier 1864
Crayon graphite et encre sur papier calque - 17,5 x 25 cm
Grenoble, musée de Grenoble
Photo : Daniel Couty
Fantin ne respecta pas ce programme et, dès le 11 septembre, crayonna une première esquisse : posé sur une colonne, le buste de Delacroix se voyait entouré de neuf personnages, Fantin s’attribuant lui-même le prestigieux rôle de couronner la glorieuse tête (ill. 3) ; outre Whistler et Legros (sur lesquels nous reviendrons), figuraient donc Manet, le peintre-graveur Félix Bracquemond, l’obscur mais officiel Florestan Myionnet, Guillaume Régamey et Louis Cordier, tous deux amis de formation de Fantin, assez oubliés aujourd’hui, et le critique et romancier Edmond Duranty, co-fondateur de la revue Le Réalisme. Curieusement, Baudelaire est absent de cette esquisse initiale. Qui se précise dès le 13 septembre avec une nouvelle « étude » (ill. 4) : le dessin est plus net, les figurants plus nombreux, Fantin y trouve sa tenue blanche de peintre et tient en mains palette et pinceau, la colonne a migré vers la droite et, désormais, c’est une figure féminine qui couronne le buste de Delacroix, conformément à une tradition bien établie [7]. Alors que Fantin multiplie les « études » (non précisément datées), une nouvelle version du 2 octobre confirme les tâtonnements intermédiaires : Fantin est définitivement le seul en blanc au milieu d’hommes en frac noir et c’est désormais non plus une femme mais une Gloire ailée qui couronne Delacroix. Et le processus créatif se poursuit : la femme éplorée assise au pied de la colonne disparaît, la Gloire embouche une trompette de la Renommée sur une Esquisse à l’huile (coll. privée) dans un décor d’extérieur avant qu’un nouveau retournement ne la voit, vêtue d’un rouge flamboyant, couronner le buste, Fantin trouvant dans l’angle du tableau, en bas à droite, sinon la place qu’il occupera dans la version définitive, du moins sa découpe à mi-corps. C’est encore une huile sur toile, entrée récemment dans les collections du musée, qui propose une nouvelle version : un fût centralement disposé supporte le buste de Delacroix, plus de femme ni réelle ni allégorique, mais cinq hommes en frac noir dont l’un, sur la gauche tient une couronne dorée à la main, et Fantin, assis en bas à droite, chemise blanche se détachant parmi ces habits sombres, la palette à la main (ill. 5). Ce n’est qu’en janvier 1854, le temps pressant pour être prêt pour le Salon, que Fantin trouve enfin la formule de sa toile : au lieu d’un buste de marbre posé sur une colonne, il introduit, déporté sur la gauche, un portrait encadré du Maître [8] (d’abord porté par une Gloire ailée) qu’il déplace, sur l’Etude du 27 janvier au centre du mur, au-dessus d’une cheminée sur le rebord de laquelle est posé un bouquet de fleurs (ill. 6). Si le placement et le nombre des figurants n’est pas encore définitif, il le devient sur le splendide crayon graphite et encre (ill. 7) de la fin janvier qui précède la réalisation, entre février et mars, de la grande toile présentée au Salon en avril 1864.
8. Edouard Manet (1832-1883)
La Barque de Dante, d’après Delacroix, vers 1855-1858
Huile sur toile - 38 x 46 cm
Lyon, musée des Beaux-Arts
Photo : RMN/D.R.
9. Albert de Balleroy (1828-1872)
Combat de chevaux, 1866
Huile sur toile - 121 x 97 cm
Bayeux, musée Baron-Gérard
Photo : Bayeux, musée Baron-Gérard
On le voit, l’œuvre bien que réalisée dans la fièvre du dépit, a donné lieu à nombre de bouleversements. Et l’on continue de s’interroger sur la signification de ce rassemblement où, hormis Baudelaire, bien peu furent amis de Delacroix et dont nul ne fut son disciple. Certes Manet, bien qu’il ne fut pas un admirateur éperdu de Delacroix, s’exerça, comme le montre sa version de La Barque de Dante (ill. 8) peinte entre 1855 et 1858, à en recopier les tonalités. Ce qui est clair c’est que cetHommage n’est guère allégorique et n’a rien à voir avec le tableau de Courbet, L’Atelier du peintre(1855, musée d’Orsay) que l’artiste d’Ornans sous-titra « Allégorie réelle » et dont il commenta explicitement la signification. Et d’ailleurs, bien que figurent sur la toile de Fantin-Latour deux des initiateurs du « réalisme » littéraire, Jules Champfleury (assis au centre) et Edmond Duranty (au premier plan à l’extrême gauche), l’absence de Courbet pose un problème à qui veut lire la toile en termes de manifeste pictural. Car si Fantin fut un bref élève de l’atelier de Courbet, il prit, comme beaucoup, rapidement ses distances avec l’auteur d’Un enterrement à Ornans. Comme Baudelaire, Duranty et Champfleury. Alors, pourquoi ne pas simplement voir dans cet Hommage un simple mais très merveilleux tableau d’amitié ? Car, à y regarder de près les liens des uns et des autres, célèbres ou non, tiennent à des relations interpersonnelles qui se manifestent selon différentes modalités : le trio initial du 11 septembre 1863 – « 1Moi / 2 Legros / 3 Whistler » – renvoie aux années de formation de Fantin-Latour durant lesquelles fut fondée la « Société des Trois » [9], années de fraternité heureuse qui s’achevèrent par des séparations rugueuses… De même que la présence de Cordier que rien ne justifie (mais qui est déjà présent sur la feuille du 11 septembre), sinon un lien amical noué dans les années 1850 dans le même atelier de la Petite Ecole. Quant à Balleroy, peintre à qui sa fortune permettait de ne peindre qu’en dilettante, il fut l’ami de Fantin et de Bracquemond, et s’inspira de Delacroix pour ses marines et son Combat de chevaux (ill. 9). Ajoutons que les uns et les autres se portraiturèrent : Manet peignit Bracquemond, Balleroy et Legos firent chacun un Portrait d’Edouard Manet à l’huile, Bracquemond une eau-forte de Champfleury, etc. Ainsi que le résume lapidairement Stéphane Guégan, l’Hommage est à la fois « remémoration et autoproclamation. Tombeau et manifeste ». Car si l’on suit Guégan, « cette poussée d’une jeunesse hétérodoxe » allait « muer en cénacle “réaliste” » la toile de Fantin qui n’était, somme toute, qu’un « groupe formel et élastique » [10].
10. Henri Fantin-Latour (1836-1904)
Etude pour “La Vérité”, 16 janvier 1865
Crayon graphite, estompe, fusain - 29,9 x 37 cm
Paris, musée d’Orsay
Photo : Daniel Couty
11. Henri Fantin-Latour (1836-1904)
Etude pour “L’Anniversaire de Baudelaire”, 1871
Crayon graphite - 9,2 x 12,7 cm
Paris, musée d’Orsay
Photo : Daniel Couty
Exposé au Salon de 1864, la toile fut assez froidement accueillie. On trouva dans le tableau lui-même de quoi l’assassiner. Les différents acteurs (que Fantin avait fait poser en divers moments [11]) tournant le dos au portrait de Delacroix, on moqua cet hommage où l’on préférait se montrer et être vu qu’honorer le Maître. Et l’on critiqua le prétendu « réalisme » de Fantin qui semblait déserter les sentiers de Courbet. Pourtant, un élément aurait dû attirer l’attention des critiques : le choix d’avoir portraituré Delacroix d’après une photographie. Et réduire à néant leurs critiques : « L’autoportrait de Delacroix est un faux, mais un faux qui dit vrai. (…) Il est investi d’une supériorité par rapport à celle des autres portraits » par ce seul fait qu’il « substitue à la temporalité du sculptural [12] la fulgurance du photographique [13] ». Il est vrai qu’alors la photographie était réduite à une simple reproduction du réel et n’avait guère de défenseurs…
Mais l’aventure de l’Hommage ne s’arrête pas au tableau de 1864. En effet, Fantin-Latour critiquant lui-même son tableau [14] se décide à présenter une variante pour le Salon de 1865 : reprenant l’idée d’une réunion d’artistes qu’il place autour d’une Vérité nue et, initialement, sous le patronage de Vélasquez et de Rembrandt ainsi que l’indique une note en bas à droite de sa première « étude » (ill. 10), multipliant là encore les dessins préparatoires, il présente pour la manifestation son Toast ! Hommage à la Vérité où se retrouvent Manet, Bracquemond, Duranty, Whistler, Cordier et Fantin auxquels s’ajoutent le jeune critique Zacharie Astruc et les deux peintres Jean-Charles Cazin et Antoine Vollon. L’accueil est froid et, mécontent de lui, Fantin détruit sa toile dont ne subsistent que trois portraits (dont celui d’Antoine Vollon, présenté dans l’exposition). La même année 1865, Fantin entend mettre au point une allégorie consacrée à Eugène Delacroix reçu aux Champs-Elysées où, comme le montrent quelques dessins préparatoires, le grand romantique serait entouré de ses peintres préférés : Titien, Vélasquez, Rembrandt, Rubens et Véronèse. « C’était », comme le note C. Leribault dans un autre article du catalogue [15], « en partie revenir à l’idée initiale de Baudelaire, mais sans les écrivains et les poètes ». Or Baudelaire meurt le 2 septembre 1867 et Fantin fait parti de la mince assistance qui suivit le corbillard. A situation semblable, Fantin entend répondre semblablement qu’avec l’Hommage à Delacroix. Il commence par une esquisse sur laquelle un buste de l’auteur desFleurs du Mal posé sur une colonne, à la droite de l’esquisse, est couronné par un homme alors qu’un groupe occupe la moitié gauche. Puis sur les esquisses suivantes, la formule définitive de l’Hommageest reprise : au mur le portrait de Baudelaire que « je ferais d’après le portrait que j’en ai dans le Delacroix » écrit-il le 22 décembre 1871 ; autour une réunion d’écrivains amis rassemblée pour célébrer les cinquante ans qu’auraient eus le poète (ill. 11). C’est précisément les chamailleries de préséance de certains par rapport à d’autres qui firent capoter le projet. Que Fantin transforma, éliminant d’aucuns, pour proposer une nouvelle réunion de portraits dans Un coin de table (1872, Paris, musée d’Orsay) où celui de Baudelaire est peut-être suggéré par l’amorce d’un cadre au-dessus de la tête de Verlaine.
12. Jules Dalou (1838-1902)
Monument à Eugène Delacroix, 1890
Plâtre, esquisse au 1/6e d’exécution
Paris, Petit Palais.
Photo : Patrick Pierrain / Petit Palais / Roger-Viollet
13. Henri Fantin-Latour (1836-1904)
L’Immortalité, 1889
Huile sur toile - 116 X 87 cm
Cardiff, National Museum of Wales
Photo : National Museum of Wales
Mais la fidélité à Delacroix refit surface en deux grandes occasions : dans l’une Fantin-Latour contribua à l’érection d’un Monument à Delacroix par un don de souscripteur en juin 1884 auprès du Comité qui s’était formé pour choisir le sculpteur, le dessin de la statue et l’emplacement de celle-ci. Les trois sujets firent débat et Fantin prit part aux diverses réunions : le jardin du Luxembourg fut finalement retenu, Jules Dalou désigné sans passer par la voix d’un appel à concours et le sculpteur opta pour un buste juché sur un piédestal au pied duquel Apollon applaudit les deux figures allégoriques du Temps ailé soulevant une Gloire dénudée élevant une couronne de lauriers. Le mouvement très sensuel, comme enroulant le socle, s’apparente à la statuaire baroque et fait contraste avec l’austérité de la tête de Delacroix dont le col est enroulé d’un foulard qui drape le peintre de toute sa majestueuse dignité [16] (ill. 12). L’inauguration du monument eut lieu le 5 octobre 1890 en présence des autorités qui y allèrent de leurs discours habituels – n’est pas Malraux qui veut – auxquels Théodore de Banville crut bon de s’associer par un poème assez mièvre et trop long – n’est pas Baudelaire qui ne peut – qui fut lu par Mounet-Sully [17].
La seconde occasion, Fantin se l’offrit pour le Salon de 1889 en envoyant une grande toile,L’Immortalité (ill. 13) très inspirée de la lithographie Réveil (1886) qu’il avait consacrée à Richard Wagner dans un recueil collectif d’hommages d’artistes internationaux à l’occasion de la mort du compositeur : il retourne la figure de la Gloire ailée portant une palme dans une main et versant délicatement de l’autre une pluie de roses sur ce que l’on devine être le tombeau de Delacroix (dont le nom apparaît gravé en bas à gauche). Déployant ses ailes sur une nuée grise que domine un ciel que dore un timide soleil, avec Paris en arrière-fond sur la droite (on aperçoit le dôme du Panthéon), cet ultime hommage au grand artiste romantique n’avait plus rien de réaliste, mais s’apparentait par son mouvement et son sfumato au symbolisme.
On ne saurait trop remercier Christophe Leribault de nous offrir cette exposition intelligente, au parcours parfaitement explicite grâce à des cartels lisibles et très bien documentés, qui, partant d’une toile « prétexte », en montre la genèse mais déborde l’Hommage pour constater l’influence qu’il eut dans la peinture de Fantin-Latour (sa prédilection pour les toiles de groupe) et même aborde la postérité de la toile. « Avec sa mise en abyme du tableau dans le tableau et la mise en perspective des générations, la formule offre une plus grande richesse que les simples portraits de groupe qui marquent seulement une solidarité forte » souligne judicieusement C. Leribault [18]. Et de convoquer, malheureusement seulement par la plume, L’Apothéose de Delacroix de Paul Cézanne (non datée, Paris, musée d’Orsay) et L’Hommage à Cézanne de Maurice Denis (1900, Paris, musée d’Orsay).
Sous la direction de Christophe Leribault, Fantin-Latour, Manet, Baudelaire : l’"Hommage à Delacroix", co-édition Louvre Editions/Le Passage, 2011, 168 p., 28 €. ISBN : 9782847421774.


Daniel Couty, La tribune de l'art, vendredi 16 décembre 2011