sabato 29 settembre 2012

E chiamarmi Giovanni

El último es un párrafo bellísimo que casi me da temor tocar, porque como dice un amigo: “Decir lo que dice una poesía no debería hacerse”. Así que lo mejor que puedo hacer es repetirlo: La amistad es el sentido, significado profundo, de la vida y del llanto y del estar solos. Pero subrayemos la palabra amistad, porque amistad para Riva es un encontrarse y caminar juntos hacia la casa, y una sola es la casa, el destino último, la realización total. Es profecía la amistad, significado del origen común de nosotros vivientes. Es decir, es un reconocerse juntos fundado en el origen y en el destino común, en lo humano que está en todos.
Pero volvamos a la cuestión juvenil. Si quisiéramos tachar de juvenil lo inexperto, lo impreciso [“great inexperience, immaturity, and every error denoting a feverish attempt, rather than a deed accomplished”, dice Keats en el prefacio a su Endymion], como algo negativo, algo errático, un “febril intento”, entonces no estamos en la vía correcta de interpretar “juvenil” para Riva. Antes bien, la inexperiencia es lo que llama la atención como dato de la juventud, de un abrirse al mundo: 

SONO COSÌ OSCURO
Ci sono giorni di festa
in cui volutamente mi scordo.
Me ne sto per ore
sulla sedia di paglia.
Mi piace guardare la strada, sotto. 
Purtroppo sono ancora così oscuro
a me stesso – talmente
incapace di dire – che non trovo
parole. 

Dice el último párrafo sono ancora così oscuro, soy aún tan oscuro. Se trata del hallazgo de la persona que todavía tiene que formarse, que no tiene lenguaje para expresarlo, porque como anotamos anteriormente, el lenguaje es la concretización. La extrañeza del ser, que se encuentra dentro del mundo, es un descubrimiento juvenil, el saberse solo ante el mundo [“yo no sabía que el mundo” dice Owen en sus poemas de Juventud].

venerdì 28 settembre 2012

Calvario bretone (Cristo Verde) di Paul Gauguin


Un mare apparentemente calma, un cielo di una giornata altretanto calma.

Prati che sembrano infuocati, viandanti: chi va, chi viene. Il fusto di un albero che conduce il nostro sguardo verso un Calvario bretone, dove la figura di un Cristo senza vita sembra chiamare con il suo braccio disteso la ragazza che di lì passava. Il Cristo Verde di Gauguin del 1889 ci presenta quello stile chiamato cloisonnisme, alludendo allo smalto e alle vetrate medievali, in cui ogni campo di colore è delimitato  da un bordo metallico.
Questo ritorno all' arte del medioevo come riferimento non è per niente casuale: la semplificazione delle immagini ci rimandono a sentimenti più profondi, contemplativi. Le linee e i colori diventano il segno del nostro sentire, come pretende l'arte espressionista.

Ma anche quel braccio è un segno, quello di un abbraccio più grande. Anche quella morte non è una realtà in sé, ma il segno che c'è un'infinita vita hic e nunc. Una vita che va oltre la frontiera del tempo, un etenità in cui il crocifisso e la ragazza si incontrano. La donna non puo' dimenticare il momento in cui è accaduto quell'incontro non programmato, un incontro con qualcuno, forse in circostanze strane, in cui era presente il mistero.

Il dipinto arresta un momento in cui c'è la presenza di un Altro. Anche una Poesia di Montale e una di Rebora lo affermano. Montale dice che le cose che pensiamo desiderare di più ci dicono: "Non è qui". Questo è tanto vero che scopriamo sempre che la risposta a ciò che cercavamo, non si trova in ciò che abbiamo raggiunto.

Quest'ansia o questo desiderio che si doveva riempire e colmare non si colma con le singole risposte, ci rimane come un vuoto. Forse la ragazza aveva dimenticato, in quel instante, che tutta la realtà è segno, che la realtà che la circonda rimanda ad Altro?

Un segno è un avvertimento. Esso indica che la verità è un'altra rispetto a quanto appare.

Occorre concepire tutto ciò che accade come segno, così da non possedere nulla, e stare in ascolto della realtà per riceverne indicazioni di questo Altro che vi fa capolino. Non consumare il segno, avere la pazienza di una rivelazione della realtà, mossi dall'ansia di vederne il vero disegno.

C'è poi quella capra nera in basso che vuole distogliere la ragazza da quel suo domandarsi. È la distrazione, quel perderci in risposte provvisorie. La tranquillità in cui viviamo seppellisce i veri desideri del nostro cuore e ci fa' credere che la verità si trova in realtà imperfette, finite.

Bibliografia:
-Argan G.C., L'arte moderna, "L'ottocento", Sansoni per la Scuola ed., Milano, 2007.

Gagosian Gallery to Present Richard Avedon at Frieze Masters, London


Gagosian Gallery to Present Selections from
Richard Avedon's In The American West 
at Frieze Masters Art Fair, London

RICHARD AVEDON Bubba Morrison, oil field worker, Albany, Texas, June 10, 1979, 1979
Gelatin silver print mounted on aluminum, 59 5/8 x 47 1/8 inches  (151.4 x 119.7 cm), Ed. of 6





In 1979, the Amon Carter Museum in Fort Worth, Texas, commissioned Richard Avedon, renowned for his portraiture and fashion images, to produce an exhibition documenting ordinary people of the western United States. Avedon spent six years traveling thousands of miles from Mesquite, Texas, to Sacramento, California, from Reliance, Wyoming, to Deadwood, South Dakota, photographing local people all along the way. The result was an unforgettable cast which constitutes the historic series In The American West
.

Avedon sought to portray the human condition, and thus his subjects do not conform to romanticized, Hollywood archetypes of the West. His exploration marked a time of great boom and bust, during which towns quickly sprang up only to become obsolete as soon as resources depleted. The faces of blood and dirt-stained laborers, carefully groomed cowgirls, and gaunt drifters reflect the diversity of inhabitants and their experiences. Avedon's photographs were taken with a large-format Deardorff camera, which allowed the enlargement of prints to be greater than life-size, thereby emphasizing the images' subtle details. The final portraits were first exhibited at the Amon Carter Museum in 1985 and have since appeared in fifteen solo exhibitions around the world.

To photograph these unknown subjects, Avedon employed many of the same techniques as for his portraits of famous people. The blank white background, the subject's direct eye contact with the photographer, and the monumental scale of the finished prints subvert the traditional language by which status is denoted. Thus the carney worker becomes analogous to the model, the coal miner to the politician. In his own words, Avedon extended a heroic province "generally reserved for politicians, celebrities, models, and the wealthy to the purview of those we often ignore."

Richard Avedon (1923-2004) is regarded as one of the most influential artists of the twentieth century. Born in New York City, Avedon began his professional photographic career in 1942 in the U.S. Merchant Marine Photographic Department, and attended the Design Laboratory at the New School. He began work as a fashion photographer for Harper's Bazaar in 1945, eventually joining rival Vogue magazine, where he would remain on staff until 1988. In 1992 he was named the first staff photographer for The New Yorker. He received a Master of Photography Award from the International Center for Photography and his work is included in the collections of MoMA, the Smithsonian, and the Metropolitan Museum of Art, along with countless other museums and institutions worldwide. He is the only photographer to have had two major exhibitions at the Metropolitan Museum of Art. Richard Avedon established The Richard Avedon Foundation during his lifetime. Based in New York, the Foundation is the repository for Avedon's photographs, negatives, publications, papers, and archival materials.

For further information please contact the gallery at newyork@gagosian.com or at            +1.212.741.1717      .

FRIEZE MASTERS HOURS:
Thursday-Saturday, October 11-13: 12-7 GMT 
Sunday, October 14: 12-6 GMT 

lunedì 24 settembre 2012

La Morte della Pizia (Parte Ottava)










’è ancora qualcun altro che hai ucciso” intervenne la Pizia.
“E chi?” domandò Edipo in tono di meraviglia.
“La Sfinge” rispose Pannychis.                        
Edipo rimase un momento silenzioso, come per rammentare qualcosa, quindi sorrise.
“La Sfinge” disse “era un mostro con testa di donna, corpo di leone, coda di serpente, ali di aquila, e poneva un ridicolo enigma. Si gettò nella vallata sottostante il monte Ficio, sicchè, quando a Tebe io sposai Giocasta… Lo sai, Pannychis, bisogna che te lo dica, la tua morte è vicina, e quindi è giusto che tu lo sappia: ho odiato i miei veri genitori come di più non si può, volevano gettarmi in pasto agli animali feroci, io non sapevo chi fossero, eppure dall’oracolo di Apollo mi sentii liberato: nello stretto valico tra Delfi e Daulide, preso da sacro furore, scagliai giù Laio dal suo cocchio, e poiché lui si era impigliato nelle redini io frustai i cavalli che trascinarono il suo corpo nella polvere fino alla morte, e, mentre lui rantolava, io mi accorsi, nel fossato lì accanto, del suo auriga che avevo ferito con la lancia. “Come si chiamava il tuo padrone?” gli domandai. Egli mi guardò fisso negli occhi e tacque. “Ebbene?” ripetei con voce imperiosa. E lui allora mi disse quel nome, avevo fatto trascinare nella polvere fino alla morte il re di Tebe e quando on furibonda impazienza seguitai a interrogarlo, l’auriga disse anche il nome della regina di Tebe. Quell’uomo mi aveva fatto i nomi dei miei genitori. Non potevo permettere che ci fossero testimoni. Tolsi dunque la lancia dalla sua ferita e lo colpii di nuovo, più profondamente. Egli spirò. E quando ebbi estratto la lancia dal corpo dell’auriga ormai senza vita, mi accorsi che Laio mi stava guardando. Era ancora vivo. Senza dire una parola, lo trafissi da parte a parte.
Volevo diventare il re di Tebe e questa era anche la volontà degli dei, e allora trionfalmente mi accoppiai con mia madre, molte, moltissime volte e con astio scellerato le piantai quattro figli nella pancia, perché questo volevano gli dei, quegli dei che odiavo ancor più dei miei genitori, e ogni volta che montavo mia madre il mio odio per loro diventava più grande. Gli dèi avevano decretato quella mostruosità e dunque quella mostruosità doveva compiersi, e quando Creonte ritornò dall’oracolo di Delfi con il responso di Apollo che la peste non si sarebbe mitigata se prima non fosse stato trovato l’assassino di Laio, allora io seppi finalmente come mai gli dei avevano escogitato un destino tanto crudele, e che avevano in animo di far fuori me,proprio me che aveva fatto la loro volontà. Trionfalmente mi feci il processo da solo, trionfalmente trovai Giocasta impiccata nelle sue stanze e trionfalmente mi trafissi gli occhi e li strappai dalle orbite: invero gli dèi mi avevano fatto dono del privilegio più grande che mente umana possa concepire, la sublime libertà di odiare quelli che ci hanno messo al mondo, i genitori, e poi gli antenati, che a loro volta hanno generato i genitori e, ancor più in su, gli dèi che hanno generato gli antenati e i genitori, e se adesso, cieco e mendico, vado errando ramingo per la Grecia, non è certo per magnificare la potenza degli dèi, bensì per dileggiarla”.
Pannychis era seduta sul tripode. Non sentiva più niente. Forse sono già morta, pensava, e solo dopo un po’ si rese conto che, circonfusa dai vapori, si stagliava davanti a lei una donna con gli occhi chiari e i rossi, incolti capelli.
“Sono Giocasta,” disse la donna “so tutto fin dalla prima notte di nozze, quando Edipo mi raccontò la sua vita. Era così aperto, Edipo, così sincero e, per Apollo, di una tale ingenuità… pensa che era perfino orgoglioso di essere riuscito a sottrarsi al decreto degli dèi – quasi che fosse possibile sottrarsi a un simile decreto – in quanto non era tornato a Corinto, non aveva colpito a morte Polibio né sposato Merope che, a quell’epoca, credeva ancora i suoi genitori. Che fosse mio figlio io l’avevo intuito subito, fin dalla prima notte in cui Edipo mise piede a Tebe. Ancora non sapevo che Laio era morto. Riconobbi Edipo dalle cicatrici ai calcagni quando lui, nudo, si distese accanto a me, ma non gli dissi nulla, perché del resto avrei dovuto dirglielo, gli uomini sono tutti talmente suscettibili, e per lo stesso motivo non gli dissi neppure che Laio non era suo padre, cosa di cui ora è ovviamente convinto; il padre di Edipo era l’ufficiale della guardia Mnesippo, un chiacchierone del tutto insignificante ma provvisto di doti sorprendenti in un campo nel quale i discorsi non servono a niente. Fatalità volle che egli sorprendesse Edipo nella mia stanza proprio la prima notte in cui il mio figliolo e futuro marito venne a trovarmi e, dopo un breve e rispettoso saluto, salì sul mio letto e si sdraiò accanto a me. Evidentemente Mnesippo voleva difendere l’onore di Laio, proprio che lui che certo non si era mai preso a cuore particolarmente l’onore di mio marito. Io feci giusto in tempo a mettere la spada in mano a Edipo; seguì un breve combattimento, Mnesippo non era mai stato un valente spadaccino. E se Edipo abbandonò il suo corpo in pasto agli avvoltoi non fu per crudeltà, ma per biasimo sportivo, Mnesippo aveva combattuto in maniera davvero pietosa. Beh… l’effetto fu orripilante, gli sportivi, si sa, sono gente che non scherza. E siccome non potevo dire  a Edipo come stavano veramente le cose perché se l’avessi fatto mi sarei messa contro la volontà degli dèi, per lo stesso motivo non potei impedirgli di prendermi in moglie, ed ero atterrita, Pannychis, vedevo con raccapriccio che il tuo oracolo si stava avverando senza che io potessi farci nulla: un figlio che sale su un letto accanto a sua madre, oh, Pannychis, credevo di svenire dall’orrore e sono invece svenuta dal piacere, mai in vita mia ho goduto con tanta violenza come quando mi sono data a Edipo; e dal mio ventre schizzarono il magnifico Polinice e Antigone, come me rossa di capelli, e la tenera Ismene, ed Eteocle, l’eroe. Dandomi a Edipo, mi vendicai di Laio che aveva lasciato mio figlio in pasto alle belve e poi, per anni e anni, aveva fatto piangere il mio bimbo perduto, e così, a ogni amplesso di Edipo io ero in totale accordo col volere degli dèi che avevano decretato quella mia passione per l’impetuoso ragazzo, e poi il mio sacrificio. Per Zeus, Pannychis, innumerevoli uomini sono venuti sopra di me, ma io ho amato solamente Edipo, destinato dagli dèi a diventare mio sposo affinché io, unica tra le donne mortali, soggiacessi non già ad un uomo estraneo, bensì a colui che avevo generato, e dunque a me stessa. Il mio trionfo è questo: Edipo mi amò senza sapere che io ero sua madre; la cosa più innaturale è diventata naturalissima: è questa l’unica felicità che gli dèi mi hanno concesso. A loro maggior gloria mi sono impiccata, o meglio, non l’ho fatto io stessa, mi ha impiccata Molorco, il primo ufficiale della guardia di Edipo, il successore di Mnesippo. Infatti, quando venne a sapere che io ero la madre di Edipo, Molorco, che era tremendamente geloso del secondo ufficiale della guardia di nome Merione, entrò a precipizio nella mia stanza, e gridò: “Guai a te, o donna incestuosa” mi impiccò all’architrave della porta. Tutti credono che io mi sia impiccata con le mie mani. Anche Edipo ne è convinto, e poiché per decreto degli dèi egli ama più me della luce dei suoi occhi, si è accecato da solo: tanto grande è la passione che Edipo nutre per me, sua madre e al tempo stesso la sua donna. Ma forse Molorco non era affatto geloso di Merione ma piuttosto di Melonteo – è buffo, per decreto degli dèi tutti i miei ufficiali della guardia cominciavano con M, ma questo è davvero irrilevante, la cosa principale, penso, è che io per decreto degli dèi ho potuto, giubilando,  porre fine alla mia esistenza. In lode di Edipo, mio figlio e sposo, Edipo che per decreto degli dèi ho amato più di ogni altro uomo, e a gloria di Apollo, che per mezzo delle tue parole, o Pannychis, ha annunciato la verità”.

Addio Lugano bella


mercoledì 19 settembre 2012

La Tempesta



Giorgione dipinse il quadro « La Tempesta » intorno al 1507-1508, qualche anno prima di morire. La tela si trova oggi alla Galleria dell’Accademia Venezia.

Quatro sono i protagonisti.
La realtà che minaccia e la tempesta in arrivo su quelle case sulle quali si riflette ancora la memoria del sole. La donna il cui sguardo interroga l’uomo di oggi, fuori dal quadro. Il soldato sicuro di sè, l’illuso certo della sua baldanza, lo spirito superbo di chi pensa di poter possedere. Infine il bambino, in pace, che beve il latte dal seno materno.

Sono state fatte varie e sapienti interpretazioni di questo quadro. Eppure una sola ci sembra importare, ascoltata nelle parole di un amico qualche anno fa.

Dapprima la realtà: la tempesta. Essa non si è ancora scatenata, ma la folgore sprigiona un sentimento di paura in qui lo guarda, quasi indovinando un male vicino. La tempesta diromperà un attimo dopo, in attesa che il cuore dell’uomo scelga definitivamente il male.

Poi c’è la madre che ha appena fatto in tempo a farsi un mantellino per ripararsi. Lei è cosciente del male, è una donna fatta, ha portato in grembro un uomo. Per un momento ha creduto di poter essere generatrice. Ma ora che il bimbo è nato e che la tempesta minaccia, in cuor suo lei sa che non potrà dare a suo figlio un senso per la sua vita.

Poi c’è il bimbo. Quando nacque piangeva e gridava. Ma ora la natura stessa del seno di quella donna di cui non ha ancora coscienza, gli insegna a avere fiducia nella vita. Il mistero nascosto nel cuore della natura gli offre una cosa di carne, che dà fiducia al piccolo. Prima il seno, poi l’abbraccio e il calore della mamma. E’ una positività che adesso avverte e che dovrà formularsi e adeguarsi alla vita che sarà. C’è qualcosa che dà fondamento al bambino, una cosa che lui non ha, ma che gli viene data.

Il segno è un avvertimento, il segno indica un’altra cosa, indica che la verità è un’altra cosa rispetto a quanto appare. La tempesta appare anche al bambino, che sarà stato spaventato dai tuoni e dal lampo. Ma attraverso quel particolare, attraverso quel seno offertogli, intravede che c’è qualcosa di positivo, di più grande di lui, che gli viene proposto. Se il bimbo non accettasse quel misterioso aiuto materno, morirebbe. Se si irrigidisse nel suo pianto e nel suo grido, sarebbe perduto.

Tuttavia la madre sa anche che il suo latte non potrà nutrire il bambino a lungo. Sa che il bambino dovrà andare più in là del suo amore, sa di non poter essere risolutiva per la vita di suo figlio, una volta che egli sarà un uomo fatto. Lei sa di essere per lui una presenza che indica una verità, un amore più grande del suo. Il bimbo sarà, come ogni uomo, tormentato dall’ansia di conoscere il vero oggetto di quel segno. E la madre ci guarda, come per pregarci di non consumarlo, di guardare “più in là”.

domenica 16 settembre 2012

Résistance culturelle


Voici un appel de la présidente de l'Association du théâtre de la liberté de Jénine:

Zakaria Zubeidi, vivant dans le camp de réfugiés de Jénine, a choisi, après les opérations militaires israéliennes de 2005, la résistance non-violente. Il a bénéficié d’une amnistie de la part de la puissance occupante. Il a rejoint Juliano Mer Khamis dans la résistance culturelle et a fondé avec lui le Théâtre de la Liberté de Jénine.

Depuis le 13 mai dernier, Zakaria Zubeidi est détenu par les services de sécurité de l’Autorité Palestinienne, emprisonné à Jéricho, sans chef d’accusation contre lui. Plusieurs fois son élargissement a été annoncé, mais chaque fois repoussé. A l’heure actuelle, une décision d’audience a remis sa libération à une semaine, afin de poursuivre l’instruction, mais le dossier semble bien vide.
Cette décision, contraire aux droits fondamentaux de la personne humaine et des personnes arrêtées, s’apparente à de la torture morale. Il faut ajouter que Zakaria Zubeidi n’a pu, pendant plusieurs semaines, recevoir la visite de son avocat et ne s’est vu signifier aucune charge.
Pour dénoncer ces atteintes aux droits, Zakaria Zubeidi a annoncé sa décision d’entamer une grève de la faim et de la soif. Nous connaissons les conséquences irréversibles d’une telle décision.
Zakaria est un des "Enfants d'Arna", et à ce titre, dans le respect de la mémoire d'Arna et dans le respect de son propre engagement, il doit retourner à Jénine, libre. Enfant,il faisait partie du groupe théâtral. Il est un des rares survivants de ce groupe que l'on voit dans le film.
Nous vous incitons à faire passer l'info et à écrire à l'Autorité Palestinienne, comme demandé par le Freedom Theatre (exemple traduit en français ci-dessous).
Sonia Fayman
Présidente de l'ATL

sabato 15 settembre 2012

UNA MANCIATA DI MORE. Recensione


UNA MANCIATA DI MORE

di Ignazio Silone

Se c’è qualcosa che rivolta lo stomaco di tutti è se tutti tacciono impauriti.

In uno qualunque dei villaggi della Marsica vivono Zaccaria, Rocco, Martino, Stella- la ragazzina ebrea-, Lazzaro, don Nicola (tutti più o meno fuggiaschi a seconda delle onde della storia) e tutta la povera gente che ha subito l’avvicendarsi, prima e dopo le due guerre mondiali, di due partiti dalle simili intenzioni ostili all’uomo come tale e sprezzanti di te singolo, diventandone aperti persecutori. Poi l’insopprimibile domanda di giustizia e libertà.

“Era un nemico? Cosa vuol dire? E’ un figlio di madre…ed era un povero pezzo di pane scuro qualsiasi. L’uomo aveva fame. Doveva morir di fame?”. Gli uomini servili a questo freddo e spietato potere sanno sempre trasformarsi secondo l’interesse e sanno conservare la brutalità dell’asservimento. Un partito, considerato la speranza del diverso rapporto tra gli uomini (“la notizia più importante era che un nuovo sole s’era levato a illudere la terra. Ovunque arrivavano i suoi raggi, gli uomini curvi alzavano la fronte”) diviene apparato arrogante e violento e anche i suoi uomini più liberi e autentici vengono perseguitati. “Il partito di oggi non è quello di una volta. Era una raccolta di uomini liberi, giovani, spregiudicati; è diventato una caserma, una questura….ma sempre vi sarà qualcuno che non venderà la sua anima per un pugno di fave e un pezzo di pecorino”. Non è un libro di analisi disillusa o di cinismo rabbioso; è un bel racconto di storie autentiche, di uomini vivi e di come le vicende umane, soprattutto quando generano dolore e violenza, abbiano la loro speranza e possibilità di essere attraversate senza disperazione, nella fraternità, nella compagnia, nell’amore.

C’è un tromba che risuona, un richiamo che non si esaurirà e non può essere distrutto sebbene, in certi momenti, sembri scomparire. “ma la tromba quando serve? Quando proprio non se ne può più. Se c’è qualcosa che rivolta lo stomaco di tutti è se tutti tacciono impauriti. E’ un modo di chiamarsi, di stare insieme, di farsi coraggio…E infine quando i vermi crederanno di avere partita vinta, apparirà l’angelo. Egli toglierà la tromba dal suo nascondiglio e la suonerà a pieni polmoni”. Ci si può mantenere a lungo nei boschi solamente con un tozzo di pane nero e una manciata di more quando si è udito, almeno una volta, il suono della speranza e si è incontrato il suo volto nell’agire degli uomini.

T.B.

giovedì 6 settembre 2012

Maestrale

S'è rifatta la calma
nell'aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
Sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.

Una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che vi s'infrange e ancora
il cammino ripiglia.

Lameggia nella chiaria
la vasta distesa, s'increspa, indi si spiana beata
e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia
vita turbata.

O mio tronco che additi,
in questa ebrietudine tarda,
ogni rinato aspetto coi germogli fioriti
sulle tue mani, guarda:

sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
"più in là!".

Eugenio Montale – Ossi di seppia-


sabato 1 settembre 2012

GOTT MIT UNS: George Grosz

Ce ne andavamo […] a spasso per i sobborghi che si andavano estendendo come un polipo, e ritraevamo tutto ciò che ci circondava: gli edifici di nuova costruzione, le miserie della città, i treni che sfrecciavano sui ponti e le strade durante i lavori di pavimentazione. […] la vita notturna mi affascinava […]. Nella nostra ricerca di eccitanti, passeggiavamo per le vie di Friedrichstadt infestate dalle sgualdrine. Le donne di piacere se ne stavano sugli usci come sentinelle, dondolando le loro borsette […][4].

In Zuhälter des Todes si osservano, in primo piano, tre neghittosi uomini in uniforme, contrassegnati dalla tipica iconografia militare. Alle loro spalle si apre una città brulicante di personaggi deformi: scheletri di ricche “signore” impellicciate, di donne ferme sull’uscio di casa; figure ambigue e altrettanto ischeletrite che come spettri passeggiano lungo le strade della città[5]. Palazzi contemporanei imbrattati da graffiti e costellati da lucernari, bandiere e finestre semichiuse con tendine, da cui un solo teschio si affaccia, fanno da quinta scenografica a una società di cadaveri disadattati, apparentemente viva e affidata alla sorvegliata cura della casta militare, qui rappresentata da tre indolenti ufficiali. Essi sono i protettori della morte.


Fig. 4 - George Grosz, Die Kommunisten fallen - und die Devisensteigen, 1919.



In Die Kommunisten fallen — und die Devisen steigen un militare e un capitalista, perfetti esponenti del mondo di Weimar, banchettano di fronte a diversi boccali di birra e di vino, mentre sul fondo alcuni soldati attrezzati con fucili, coltelli, pistole, manganelli e spade massacrano i dimostranti (fig.4). Dunque, secondo un sistema inversamente proporzionale, i comunisti calano, ma i profitti crescono.




Nella litografia Die Gesundbeter l’interno è spoglio, chiuso da pareti accennate da qualche linea ortogonale e obliqua. La disposizione delle figure in semicerchio crea l’effetto di una misurata spazialità. Il tratto è spigoloso. Più fluido e più ricco di dettagli, invece, è il disegno alla base di Zuhälter des Todes (. Qui, la composizione è divisa in due grandi blocchi: un primo piano e uno sfondo reso da architetture angolate che, in lontananza, vanno ulteriormente a semplificarsi. I vari livelli spaziali sono mediati da alcune figure di raccordo, un accorgimento utilizzato anche in altre opere, da Strada di città (1916) a Trafficante di brillanti al Café Kaiserhof (1920), a Giorno grigio (1921)[6].                                

Non esiste un corretto rapporto proporzionale tra personaggi ed edifici: i primi spesso superano i secondi in altezza. La prospettiva, a volo d’uccello, è varia e dinamica, così come i punti di fuga. Sviluppata in verticale anziché in profondità, l’immagine presenta un alto orizzonte che consente di carpire ogni singolo dettaglio della scena. Inoltre l’apparato iconografico, da tempo fissato nel vocabolario visivo dell’artista, è lo stesso dei disegni elaborati fra il 1915 e il 1916. In Die Kommunisten fallen — und die Devisen steigen la composizione è ugualmente ripartita. Essenziale e poco caratterizzata, l’ambientazione è resa in gran parte da un segno sottile e preciso. Tuttavia, in alcuni punti sullo sfondo la linea di contorno delle figure va a ingrossarsi, determinando una labile scansione spaziale. A tratti i segni si sovrappongono in trasparenze che accentuano l’efferatezza del soggetto, come accade anche in Maltrattamento di prigionieri e in numerosi disegni del 1919.