sabato 1 ottobre 2011

Georges Rouault nella testimonianza di Raissa e Jacques Maritain


from thegreateachers

“Avemmo la gioia di conoscere bene Rouault e di vederlo assai spesso durante gli anni in cui egli e noi abitavamo a Versailles. Egli era allora in tutto simile ad alcuni dei suoi Pierrots o dei suoi pagliacci. (...) Fu da lui che noi imparammo a conoscere quello che può essere la sensibilità, la lealtà nei confronti della propria arte, l’eroismo di un grande artista”: così scrive, in una sorta di autobiografia (I grandi amici, Vita e pensiero, Milano 1975, p. 134) la letterata e mistica Raissa Maritain nel 1941. Usa la prima persona plurale perché include il marito, il filosofo tomista Jacques Maritain,  ed un po’ anche la sorella Vera; il ricordo si riferisce ai primi anni del XX secolo. A cosa si deve l’ammirazione sconfinata per questo loro amico, considerato addirittura “uno dei più grandi pittori di ogni tempo” (p. 138)?


Innanzitutto, dal punto di vista etico, la sua perseverante ricerca di coerenza. Rouault (che a ventitré anni aveva già dipinto quadri alla Rembrandt che gli attiravano fama e soldi) non esitò a  perseguire “la purezza della sua coscienza d’artista”, rinunziando, nonostante i quattro figli da sfamare,  a “fare della pittura che si vende subito, facilmente a tutti” (p. 134).
La coerenza, però, non è di per sé un titolo di merito. La sua qualità dipende dai princìpi a cui si resta fedeli. E questi princìpi sono, sostanzialmente, condivisi dai coniugi Maritain: “le sue più violente esasperazioni contro la borghesia e contro il nostro ordine sociale sono in tal modo come delle disillusioni di un’anima presa da un ordine interiore che essa vuole troppo avidamente ritrovare nelle strade, nei tribunali e nel metrò” (J. Maritain, Frontiere della poesia e altri saggi, Morcelliana, Brescia 1981, ed. or. 1935, p. 77).
Per quanto essenziali, i pregi etici non giustificherebbero da soli l’apprezzamento di un pittore in quanto pittore. Leon Bloy, ad esempio, pur consapevole dello spessore morale del suo giovane amico Rouault, non gli risparmiava le critiche più feroci dal punto di vista estetico: “Voi – gli scrive in una lettera del I maggio 1907 – siete attirato soltanto dal brutto” (cfr. R. Maritain, I grandi amici, cit., p. 136). Ma su questo punto i Maritain non se la sentono di condividere la durezza del comune maestro. Essi riconoscono nella pittura dell’amico il merito di giocare il tutto per tutto pur di sconfiggere “le forme regolari di tutti gli accademisti” (p. 137). Come un Cézanne, un Rousseau, Rouault ha provato  “a fare della bellezza con le deformazioni”. Che è il miracolo della “sovrana presenza della poesia” (p. 136). Sì, è vero, dipinge quadri che “sull’istante suscitano un senso di repulsione, ma  che poi non si può fare a meno di ammirare” (J. Maritain, Ricordi e appunti, Morcelliana, Brescia 1973, p. 106).
Vi è, insomma, in Rouault come un parallelismo fra l’inquietudine etica e l’irrequietezza estetica. Meglio ancora: la sua pittura rompe gli schemi tradizionali come, e perché, la sua soggettività insorge contro le strutture socio-culturali dominanti. La sua rivolta contro le forme canoniche ‘classiche’ è, in un certo senso, l’espressione plastica della sua intolleranza verso ogni forma di mediocrità, di conformismo e di ipocrisia. Soprattutto nella fase in cui si è ispirato alle vetrate delle cattedrali gotiche, egli stava effettuando nelle arti figurative ciò che i Maritain tentavano, con i meriti e le ambiguità del caso, nell’ambito filosofico-teologico: riattualizzare il meglio del Medioevo come antidoto alla decadenza del Moderno.
Quando i Maritain scrivono la maggior parte delle loro pagine su Rouault, questo artista ‘primitivo’  - come Chagall apparentemente naif -   non è arrivato a ciò che è considerato uno dei suoi capolavori: la serie di 58 incisioni su rame note col titolo complessivo di “Miserere” (pubblicate originariamente dall’autore qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale). Una raccolta completa di queste tavole è custodita nella Galleria d’arte contemporanea della “Cittadella cristiana” di Assisi (che ne ha curato anche la pubblicazione in un volume in lingua italiana). Dal 3 al 26 marzo una riproduzione fotografica delle tavole, realizzata dal maestro Elio Ciol e corredata da didascalie scritte di pugno dall’artista francese,  è stata allestita a Palermo presso il Tabularium del Loggiato San Bartolomeo alla Marina. Il tema della mostra didattica itinerante è la passione di Gesù di Nazareth, in cui il pittore vede simboleggiata la sofferenza che sfigura le vittime della storia. Ma la tematica religiosa non lo distrae dalla sua ispirazione originaria e continua: come nelle opere in cui rappresenta “donne di strada, pagliacci, giudici e megere”, anche qui egli persegue “il proprio accordo interiore nell’universo della forma e del colore” (J. Maritain, Le frontiere, cit., p. 79). E lo persegue andando all’essenziale perché “più un artista è grande, più egli semplifica, operando una scelta e omettendo” (J. Maritain, Ricordi, cit., p. 107).
Che la mostra passi da Palermo, infine, potrebbe non essere privo di significati.
Innanzitutto s’impone una ragione di carattere generale: la nostra città ha bisogno di iniezioni di bellezza. Lo storico Paolo Viola, da poco scomparso, mi diceva che l’aveva scelta – lui piemontese d’origine, laureato a Pisa, abitante a Roma – perché a suo parere sarebbe una delle città più belle d’Italia. Ma è imbruttita. Anzi – per evitare di pensare ad un processo biologico ineluttabile - abbrutita. Quanto scriveva Vincenzo Consolo ne Le pietre di Pantalica del 1988 resta ancora, per troppi versi, attuale: “Le zone di case lesionate, pericolanti, fatte evacuare, sono state chiuse da mura di cinta. Dietro queste fresche mura di tufo, si accumulano le immondizie del mercato, degli abitanti, le ossa delle macellerie, vi razzolano bambini, cani, gatti, vi ballano topi. Qui Palermo è una Beirut distrutta da una guerra che dura ormai da quarant’anni, la guerra del potere mafioso contro i poveri, i diseredati della città. La guerra contro la civiltà, la cultura, la decenza” (p. 172).
Ma se la situazione fisica, materiale, è questa, la bellezza di cui abbiamo bisogno in città come la nostra deve evitare anche solo l’apparenza della retorica. Dev’essere nuda, schietta, asciutta. Proprio come i quadri di Rouault che – com’è tipico dell’espressionismo - non concedono nulla all’eufemismo, all’abbellimento artificioso. E che aprono gli occhi sulle risorse sepolte in personaggi e paesaggi, ma attraversandone – con pietoso realismo -  le ferite oggettive. Basta fare un confronto fra questo Miserere e una Via Crucis ‘media’ esposta nelle nostre chiese, dove il Messia sofferente ha i lineamenti stucchevolmente piacenti di un attore di Hollywood.  È un po’ la differenza fra il Gesù di Pasolini e il Gesù di Zeffirelli (e non è un caso, forse, che Pasolini abbia avuto proprio alla “Cittadella” d’Assisi l’idea del suo “Vangelo secondo Matteo”). Dico di Pasolini, non di Mel Gibson perché non si tratta di essere sadicamente truculenti: l’arte compie la magia di rendere liberatrice la contemplazione persino delle deformazioni. L’arte di Rouault  rispetta la sofferenza dell’uomo Gesù in tutta la sua cruda concretezza,  ma la trasfigura poeticamente: la fa diventare, per così dire, il prototipo della sofferenza di ogni uomo. Per questo, davanti a più di una delle  tavole esposte, può capitare che il visitatore avverta la sensazione di essere davanti ad uno specchio: che rifletta  non tanto la sua ‘maschera’ protettiva quanto la sua anima indifesa.

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