martedì 26 giugno 2012

La Morte della Pizia (parte sesta)



l cielo faceva tutt’uno con le rocce e il mare, e a occidente, sopra un nero banco di nebbia, spiccava, strana e malvagia, una stella rossa. Alla Pizia sembrò che Tiresia incombesse minaccioso, lo stesso Tiresia che tante e tante volte le aveva imposto di recitare quei suoi calcolatissimi oracoli, dei quali in quanto veggente andava fierissimo, benché fossero solo cretinate, in realtà, esattamente come gli oracoli che lei stessa, Pannychis, andava escogitando, e Tiresia era vecchissimo, ancora più vecchio di lei, viveva già al tempo di Krobyle IV, e prima ancora, all’epoca di Melitta, e addirittura al tempo di Bakchis. Ad un tratto, mentre attraversava un passo claudicante lo sterminato cantiere del tempio di Apollo, la Pizia si rese conto che la morte si stava avvicinando – finalmente, del resto. Gettò il bastone verso la colonna ofitica, ecco qui un altro monumento kitsch, pensò, e smise di andare in giro zoppicando. Entrò nel santuario: morire, che evento solenne. Si domandò come avvenisse il morire: era emozionata, pregustava l’avventura. Lasciò aperto il portale principale, salì sul tripode e aspettò la morte. I vapori lievemente rossastri che scaturivano dalla fessura nella roccia la avvolsero, strato dopo strato, come nuvole dense, e attraverso quei veli Pannychis scorse la luce perlacea della notte che entrava a fiotti dal portale principale. Sentendo la morte vicina, crebbe la sua curiosità.
Dapprima le comparve dinnanzi un volto cupo e arcigno, capelli corvini, fronte bassa, occhi inespressivi, colorito terreo. Pannychis non si mosse, pensò a un messaggero di morte; poi tutt’a un tratto seppe invece che si trattava di Meneceo, l’uomo drago. La faccia era truce e la stava guardando. Parlava, quella faccia, o forse no, invece, stava zitta, ma in modo tale che la Pizia intese in essa l’uomo drago.
Era stato un piccolo, umile contadino, che trasferitosi a Tebe aveva prima lavorato duramente in qualità di bracciante, poi come caposquadra, infine come imprenditore edile, ma la sua fortuna aveva coinciso con l’incarico di dirigere i lavori della rocca di Cadmo; e il risultato, per gli dèi, era l’acropoli, una vera magnificenza! I maligni dicevano che Meneceo doveva tutta la sua fortuna alla figlia di Giocasta; certo, il re Laio l’aveva sposata, ma non è che Meneceo fosse un uomo qualsiasi, in fin dei conti apparteneva alla stirpe degli uomini drago, così denominati perché sorti a Tebe dal terreno limaccioso in cui Cadmo aveva seminato i denti del drago. All’inizio si erano soltanto viste le punte delle loro spade, quindi i pennacchi degli elmi, poi le teste e i volti che guardandosi con odio si sputavano addosso; e non appena emersero dal fango con tutto il busto, gli uomini drago cominciarono ad azzuffarsi agitando le spade che ancora per metà affondavano nella melma, e quando poi uscirono dai solchi nei quali erano stati seminati, si avventarono come belve gli uni contro gli altrri. Ma Udeo, il bisnonno di Meneceo, sopravvisse alla cruenta battaglia, nonché al macigno lanciato da Cadmo nella mischia furibonda degli uomini drago. Meneceo credeva nelle vecchie storie, e proprio per questo detestava Laio, il borioso aristocratico che faceva discendere la propria stirpe dal matrimonio di Cadmo e Armonia, la figlia di Ares e Afrodite; le nozze di Cadmo e Armonia dovevano essere state fantastiche, questo sì, ma una cosa era certa: Cadmo il drago l’aveva ucciso prima, e seminato i suoi denti nella terra, sicchè l’uomo drago Meneceo si sentiva superiore a Laio, essendo la sua stirpe più antica e prodigiosa di quella del re di Tebe; di Armoni, di Ares e di Afrodite non gli importava un fico secco, e quando Laio aveva sposato Giocasta, l’orgogliosa ragazza dagli occhi chiari e i rossi, incolti capelli, Meneceo aveva in cuor suo accarezzato la speranza che lui, o se non lui suo figlio Creonte, potesse un giorno prendere il potere, Creonte, quell’uomo truce dai capelli corvini e il volto butterato, alle cui parole, che pure pronunciava con voce sommessa, avevano tremato gli operai del cantiere come ora temevano i soldati, perché Creonte, essendo cognato del re, deteneva ormai il comando supremo dell’esercito di Tebe. Soltanto il corpo di guardia del Palazzo reale non prendeva ordini da lui. Creonte però aveva un che di tremendamente leale, era fiero del cognato Laio al quale dimostrava perfino una certa gratitudine, per non parlare della sorella, alla quale era affezionatissimo: nonostante le brutte cose che si dicevano sul conto di Giocasta, lui, Creonte, l’aveva sempre difesa e protetta; per tutti questi motivi, l’ora della sedizione non arrivava mai. Quante volte, a pensarci si sentiva disperato, Miceneo era stato sul punto di suggerire a Creonte: Suvvia, insorgi, fatti re! Ma poi, all’ultimo momento non aveva mai osato; quando dunque aveva ormai rinunciato a quel suo vecchio sogno, un giorno, nell’osteria di Peloro – lui pure pronipote dell’omonimo uomo drago -, Meneceo incontrò Tiresia, il duro e potente indovino cieco che soleva farsi accompagnare da un fanciullo. Tiresia, che conosceva gli dei di persona, non diede affatto una valutazione pessimistica sulla possibilità che Creonte diventasse re; i decreti divini, disse, erano così misteriosi che capitava sovente che gli dèi stessi non li sapessero in anticipo, e ogni tanto, nella loro irresolutezza, essi non disdegnavano una qualche indicazione da parte degli umani… beh, insomma, nel suo caso, nel caso di Meneceo, disse Teresia, la cosa sarebbe costata cinquantamila talenti. Meneceo rimase atterrito, non tanto per l’enormità della somma in sé quanto per il fatto che essa coincideva esattamente con l’ammontare dell’enorme patrimonio da lui guadagnato per i lavori dell’acropoli di Cadmo e per altre opere edilizie commissionategli dal re; le imposte però le aveva sempre pagate soltanto su cinquemila talenti. E Meneceo pagò.

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