sabato 10 gennaio 2015

Le città impossibili: Potosì


Nei secoli XVI e XVII, il cerro rico di Potosì, la miniera d'argento più ricca del mondo, fu il centro della vita coloniale americana.

All'epoca del suo splendore, circa a metà del secolo XVII, la città aveva richiamato a sè moltissimi pittori e artigiani spagnoli e autoctoni, maestri europei e creoli, scultori e pittori indigeni che avevano dato la loro impronta all'arte coloniale americana. (...) Gli orafi, i cesellatori d'argento, i maestri del lavoro a sbalzo e gli ebanisti che lavoravano il metallo, i legni pregiati, il gesso ed i marmi nobili ornarono le numerose chiese e i monasteri di Potosì con sculture e intagli di immagini sacre coloniali, con altari filigranati scintillanti di argento e con pale e pulpiti preziosissimi. Le facciate barocche dei templi, lavorate in pietra, hanno resistito agli assalti del tempo: ciò non è accaduto, invece, per i quadri, in maggioranza mortalmente corrosi dall'umidità, né per le sculture o gli oggetti meno pesanti. Turisti e parroci hanno vuotato le chiese di quanto si poteva asportare: dai calici e dalle campane alle pale di San Francesco e di Cristo in legno di faggio o frassino.
(...)
Secondo Josiah Conder, il cerro rico di Potosì bruciò, in tre secoli, otto milioni di vite. Gli indios venivano strappati alle comunità agricole e gettati, con mogli e figli, nell'inferno del cerro. Su dieci persone che si dirigevano verso gli altopiani gelati, sette non facevano più ritorno.
Da Eduardo Galeano, Le vene aperte dell'America Latina




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