martedì 21 giugno 2011

Matisse Paysage maroccain avec cavalier, croquis de “Les Acanthes”

fig. 12
Il viaggio in Marocco sancisce una trasformazione importante nel panorama stilistico di Matisse, se prima la sua arte era all’insegna del selvaggio, del ‘fauve’, ora si assiste ad un cambiamento di registro, come se la luce avesse addolcito il mondo dei riferimenti matissiani che adesso si manifesta in quadri molto più pacati, gioiosi. L’artista inoltre acquisisce una nuova essenzialità che svilupperà negli anni della guerra. Dal 1914 al 1916, infatti, c’è una radicale rinuncia all’abbondanza compositiva, decorativa (come abbiamo visto parlando della depauperazione delle rappresentazioni floreali negli anni del conflitto mondiale) e della gamma cromatica che va sempre più avvicinandosi a quella del cubismo sintetico. Contemporaneamente si assiste ad una ricerca sulla scomposizione che, passando per i ritratti del 1913-14, giunge al suo culmine in quella che si può considerare l’opera conclusiva dei due viaggi di Matisse in Marocco: ‘Les Marocains’ (fig. 12). Eseguita nel 1916 43, a quasi tre anni dal ritorno dell’artista in Francia, esprime esattamente l’ideale di interiorizzazione e sublimazione dell’esperienza visiva attraverso il ricordo che perseguiva Matisse44. Le immagini sono ridotte ad un minimo essenziale45 che sfiora l’astrattismo. ‘Les Marocains’ è la somma di tutte le tele eseguite nel paese islamico, Matisse in questo quadro unisce il ricordo46 dell’ispirazione della luce e del colore marocchini al dialogo con il cubismo, eliminando ogni dettaglio che ritenga estraneo all’equilibrio generale della tela. È molto interessante, ad esempio, vedere come si evolve il tema della vegetazione all’interno del quadro: non vi è più alcuna traccia della rappresentazione edenica del giardino orientale, la natura è recuperabile soltanto per frammenti isolati. La composizione si sviluppa su tre livelli: in primo piano, in basso, quello che sembrerebbe un campo di zucche o meloni con grandi foglie verdi, astratta natura morta adagiata su un reticolato bianco. In alto, un balcone fiorito recintato da una ringhiera in ferro47 con dietro la famosa veduta della Casbah di Tangeri con una cupola di un marabout che troviamo riprodotta in molti disegni del 1912-13.48
fig. 11(a)
La parte destra è sicuramente la più ambigua e difficile da interpretare: c ’è una figura inginocchiata in primo piano, di spalle, con un turbante bianco in testa. In secondo piano, un cerchio in cui forse appare un altro uomo col mantello marrone, anch’egli di spalle. I personaggi sono dipinti all’interno-esterno di un edificio molto semplificato con delle finestre accennate da cui si affacciano forme geometriche indistinguibili; volendoci ricollegare alla teoria di Cowart secondo cui Matisse in Marocco disegnasse anche gli esseri umani e la loro disposizione nello spazio come se appartenenti al regno vegetale, si potrebbe riscontrare nell’edificio da cui emergono i marocchini protagonisti del quadro, un’analogia con il tronco di un albero. In questa tela, c’è un elemento che semplifica, divide e unisce le tre parti della composizione, insinuandosi fra le loro diramazioni e inondando, paradossalmente, l’opera di luce: è il colore nero49; questo pigmento, denso, dà un ritmo che bilancia e trasmette calma, evoca uno spazio tangibile quanto gli oggetti disegnati, armonizza e collega gli elementi della composizione altresì ‘sparpagliati’.
fig.11 (b)
Assistiamo dunque ad un nuovo e programmatico uso del colore nero, Matisse rinuncia in questa tela a tutto il superfluo (compreso il colore) sviluppando una ricerca per cui inizierà ad inserire porzioni di nero, spesso ‘bande nere’, come elemento unificante in molti dei suoi dipinti. Non era semplice riuscire ad usare questo colore in senso armonico e non per creare contrasti, tanto che artisti del calibro di Renoir si complimentarono con il più giovane Matisse per essere riuscito a svincolarsi dalla canonica accezione del colore nero in pittura50.
La ‘banda nera’ sottolinea, senza sovrastarli, gli elementi compositivi della produzione matissiana di questi anni. Anche questo nuovo pattern dialoga apertamente con il cubismo. Si guardi all’uso della ‘banda nera’ in opere di Matisse come ‘Pesci rossi e tavolozza’ del 1914, ‘Rideau jaune’ del 1915, ‘Nature morte d’après La desserte de David Heem’ sempre del 1915, in confronto con creazioni di Picasso come le serie di ‘chitarre’ del 1912-1914; per quanto si parli sempre di porzioni abbastanza delimitate di nero, spesso di forma rettangolare allungata, la differenza è lampante: in Matisse il nero costruisce, è parte integrante nell’armonia della composizione, al pari di tutti gli altri colori, che si tratti di una natura morta o di un’immagine astratta. In Picasso invece il nero non si unisce agli altri colori, vi si staglia per accentuare i contrasti fra i vari elementi dell’architettura dell’opera.
Tornando a ‘Les Marocains’, il modo in cui i personaggi fuoriescono dall’architettura come ‘risucchiati ’dalle cavità-finestre dell’edificio, la coralità della rappresentazione, lo sfondo nero, la forte scomposizione, possono, forse con troppo sforzo immaginativo, far pensare che Picasso abbia attinto anche a questo quadro nel comporre, quasi vent’anni più tardi, il ‘Guernica’. Attraverso gli elementi (ipotizzati) in comune, il risultato finale che le due opere presentano non può essere più diverso: da una parte, un messaggio di estrema calma ed equilibrio da parte di Matisse, dall’altra, un acuto grido di strazio, un movimento convulso e pieno di dolore, reso perfettamente da Picasso. Henri Matisse, artista eclettico e pieno di energia, lucido e recettivo fino all’ultimo momento della sua estesa carriera artistica, ebbe sempre ben chiara la sensazione che la propria opera avrebbe dovuto trasmettere per essere perfetta; ho piacere di concludere questa trattazione con le sue parole: “Sogno un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza soggetti inquietanti o preoccupanti. Un’arte che sia [...] un lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa di analogo a una buona poltrona dove riposarsi dalle fatiche fisiche”.51



43 Quest’opera fu ideata inizialmente nel 1912, rielaborata nel 1913 e completata fra il 1915 e il 1916. I molti rimaneggiamenti sono stati confermati dall’esecuzione di analisi con i raggi x.
 
44 “L’opera d’arte è così il risultato di un lungo lavoro d’elaborazione. L’artista attinge intorno a sé tutto ciò che è capace di alimentare la visione interiore.[...]Si arricchisce interiormente di tutte le forme di cui si impadronisce e che ordinerà un giorno o l’altro secondo un ritmo nuovo. Proprio nell’espressione di questo ritmo l’attività dell’artista sarà realmente creatrice; per arrivarci, gli sarà necessario tendere alla rinuncia piuttosto che all’accumulazione dei dettagli, scegliere, per esempio in un disegno, tra tutte le combinazioni possibili, la linea che si rivelerà pienamente espressiva, quasi portatrice di vita; cercare l equivalenze attraverso cui i dati della natura si trovano trasposti nel dominio proprio dell’arte.” In Règine Pernoud, in <>, vol. VI, n. 10, ottobre 1953. Cit. in FOURCADE 1972, pag. 282.
 
45 “Ho sempre cercato di dissimulare i miei sforzi, ho sempre sperato che le mie opere avessero la leggerezza e l’allegria della primavera che non lascia mai sospettare quanto lavoro è costata. Temo dunque che i giovani, vedendo soltanto l’apparente facilità e le negligenze del disegno, se ne servano come scusa per dispensarsi da certi sforzi che io ritengo necessari[...]Credo che lo studio mediante il disegno sia assolutamente essenziale. Se il disegno procede dallo Spirito e il colore dai sensi, bisogna disegnare per educare lo Spirito ad essere capace di condurre il colore sui sentieri dello spirito” In ‘Lettera a Henry Clifford’ pubblicata come prefazione al catalogo della mostra Henri Matisse, retrospective exhibition of paintings, drawings and sculpture organized in collaboration with the artist, Philadelphia Museum of Art, 1948, cit. in in FOURCADE 1972, pp.274.
 
46 Matisse usa la memoria come ‘decanter’, iniziò a farlo nel suo primo viaggio in Africa, tanto che ‘Souvenir de Biskra’ fu dipinto un anno dopo la sua permanenza in Algeria. Cfr. COWART 1990, pag. 23.
 
47 Questa ringhiera potrebbe essere la semplificazione della ringhiera in ferro battuto, altro tema ricorrente della produzione matissiana qui presa in analisi, presente nella maggior parte delle finestre da lui dipinte in quegli anni (Cfr. fig. 11)
 
48 Nei disegni del Marocco troviamo uno studio approfondito dell’architettura della città di Tangeri, in particolare della Casbah, che andrà sicuramente a suffragare l’esecuzione dei ‘Marocchini’. Cowart vuole vedere addirittura in questi schizzi del 1912-13, fortemente geometrici e semplificati, un inizio di dialogo con il cubismo che poi prenderà piede nel 1914-15, con il ritorno di Matisse a Parigi, esplicitato nell’ambito della produzione marocchina, con l’ultima delle tele eseguite su questo tema: “I Marocchini”. Cfr COWART 1990, pag. 124.
 
49 “Gli orientali si sono serviti del nero come colore, particolarmente i Giapponesi nelle stampe[...] Nel mio pannello dei Marocains non c’è forse un grande nero con la stessa luminosità degli altri colori del quadro?”In Il nero è un colore’ in << Derrière le miroir>>, n. I, dicembre 1946. Cit. in FOURCADE 1972, pag. 158.
 
50 Racconta Matisse a Picasso che verso la fine della prima Guerra Mondiale si recò a far visita a Renoir, ormai molto anziano, nella sua casa di Cagnes. “Mi ricevette cordialmente e io gli feci vedere alcune mie tele, per conoscere il suo parere. Le osservò con una certa aria di disapprovazione, poi disse: << A dir la verità, non mi piace quello che fate. Mi verrebbe quasi da dire che non siete un buon pittore, o addirittura che siete un pessimo pittore. Ma una cosa me lo vieta; quando mettete un nero, sulla tela, quello resta nel suo piano. Per tutta la vita, ho pensato che non fosse possibile servirsene senza spezzare l’unità cromatica della superficie. È un colore che ho bandito dalla mia tavolozza. Mentre voi, pur utilizzando un vocabolario colorato, ci mettete il nero e la cosa regge>>”. Françoise Gilot e Carlton Lake, 1965, Vivre avec Picasso, Calmann-Lèvy, Paris, cit. in in FOURCADE 1972, nota 64, pag. 173.
 
51 Cit. in FOURCADE 1972, pag. 11.

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